La projectroom allestita con i lavori di Katrin Sigurdardottir (Reykjavik 1967. Vive tra Reykjavik e New York) conclude il ciclo D-segni, curato da Ilaria Bonacossa e dedicato al disegno nell’espressione di quattro artiste contemporanee, nell’ambito del più ampio progetto che quest’anno ha visto dedicare alle donne la maggior parte delle attività della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Così, in contemporanea all’antologica di Carol Rama e a diverse altre iniziative, Sigurdardottir chiude un percorso che si era aperto con i lavori “ecologici” di Marguerite Kahrl, proseguito con gli interventi minimali di Micol Assaël su un testo russo di radiotecnica e con le opere di Tabaimo, caratterizzate da un graffiante humour nero.
L’artista islandese è nota soprattutto per i suoi interventi ai confini fra la scultura e l’installazione, e recentemente aveva esposto alla galleria torinese Maze e ad Artissima la sua labirintica Island (2003). In questo caso, si ha la possibilità di apprezzare un lavoro per certi versi simile, ma realizzato su carta e a partire da fotografie di architetture degli anni Cinquanta e Sessanta. Questo materiale preparatorio, in un secondo tempo, viene trattato in maniera tale che la più forte sensazione trasmessa è quella di una critica al mito modernista, di sapore social-democratico, che si rinviene sia in certi esempi statunitensi di downtown –come ricorda la stessa artista- sia in molti “esperimenti sociali” scandinavi.
In tale ottica, dato il senso di spaesamento trasmesso dai suoi disegni, ha un significato pregnante l’assenza di titoli e di qualunque altro elemento che possa differenziare e individualizzare le sue opere. In esse, l’essere umano è stato paradossalmente sbalzato fuori, a riprova del fallimento dei progettisti di quegli interni/esterni architettonici e urbanistici. Anche il trattamento cromatico –domina un blu caldo e ovattato- concorre ad amplificare l’ambiguità di una protezione securitaria che diviene oppressione. Infine, sempre in questa prospettiva, le griglie che scandiscono lo spazio in modo reticolare sembrano volerlo dominare e razionalizzare, ma è ormai palese che si tratta di un effetto di superficie.
In sostanza, il dato di maggior impatto che trasmettono questi lavori è il fallimento di tutte quelle declinazioni funzionaliste e “bio-architettoniche” che, se da un lato si integrano anche con ottimi risultati all’ambiente circostante, dall’altra sono fautrici di un isolamento esistenziale che snatura il concetto stesso di abitare. Almeno se non si fa più riferimento alla metafora, spesso purtroppo ancora dominante in certa architettura, dell’alveare. La “memoria geografica” di Katrin Sigurdardottir si rivela dunque nient’affatto tabula rasa, ma selettiva e critica. Che non è poco, per una memoria.
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