Il lavoro di Nan Goldin (Washington, 1953, vive a Parigi) è di quelli che colpisce al volto, senza lasciare vie di fuga. Le sue fotografie documentano con una partecipazione disarmante momenti di vita e di morte, situazioni e ambienti al limite. Sempre sulla soglia. Non necessariamente drammatici, come la morte per Aids. Anche l’atto d’amore e la nascita, mostrati in tutta la loro violenza animale. I sorrisi allora si stemperano, quando compaiono furtivi. O meglio, vengono illuminati dal riflesso della difficoltà di vivere. Ma con ciò non si deve immaginare un esistenzialismo di posa, o un atteggiamento intellettualistico sartriano. Al contrario, nel lavoro di Goldin emerge con una purezza acuta la vita nella sua spigolosità. Nulla a che vedere con l’esaltazione dell’esperienza e in fondo dell’umanismo che erano pietre miliari della poetica dell’azionismo viennese o di certa body art.
Così è stato per tutte le sue grandi mostre itineranti, da I’ll Be Your Mirror (1996) a Devil’s Playground (2001). Ma anche nelle personali meno monumentali, per esempio quella del 1997 allo spazio Th.e di Napoli. È doveroso allora plaudere al lavoro di Guido Costa, grazie al quale il pubblico italiano ha conosciuto Nan Goldin. Spostandosi a Torino, l’atipico gallerista ha continuato a rappresentare il suo lavoro (insieme a Lambert, White Cube, Spruth & Magers), consacrando l’ultima mostra nello spazio di via Mazzini proprio alla fotografa statunitense.
Polvere di Stelle presenta un numero di scatti ridotto. Ma si tratta di materiali di ineguagliabile valore. Una serie in bianco e nero è costituita da stampe uniche provenienti dall’archivio dell’artista e risalgono ai primi anni ’70. Sono dunque lavori seminali, di enorme importanza per
Chi sosteneva che la fotografia avesse ormai compiuto la sua parabola e fosse in declino, dovrà solo osservare questi scatti per rendersi conto che, naturalmente, qualcosa resta. E, in questo caso, rimane il meglio.
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