Chissà cosa avrebbe fatto Alighiero davanti ad una mostra così giocata sul personale, sul ritratto, sull’identità e l’individualità. Forse avrebbe alzato un sopracciglio, assumendo ancora un’espressione di quelle con cui aveva voluto indicare i personaggi dell’arte che lo accompagnavano negli anni Settanta, lungo il corso di una revisione dell’arte in via di collisione con lo statuto dell’autore e con la propria funzione sociale. Forse avrebbe alzato un sopracciglio, rimandandoci a quel notaio dove aveva depositato la spiegazione di quei segni geroglifici moderni che, insieme agli enigmatici gesti e alle alterne espressioni, conducevano alla scoperta del concetto d’opera d’arte di Boetti (Torino 1940 – 1994). Manifesto 1967/1972, l’opera a cui si allude, è presente in una collettiva che alle soglie del decennale della sua scomparsa intende
Mentre Sartor percorre le linee incisive del volto di Boetti, il meticciato concettuale e il nomadismo fisico dell’artista torinese sono esposti nelle foto della Gherardi in Marocco ma anche negli scatti che Boetti stesso fece, e si fece fare, dai nativi del Guatemala, al fine di rivisitare il rapporto straniero/non straniero che nelle terre di mezzo come anche l’Afganistan o il Pakistan fornivano all’artista un ideale campo d’indagine sul rapporto tra l’egoità e l’alterità.
La ripresa di Gemelli (opera in cui Boetti si sdoppiava) da parte di Lucas, avviene su una doppia tela disegnata con centinaia di spilli sporgenti per diversi centimetri verso l’esterno. Le polaroid dipinte di Galimberti vertono invece sul tema boettiano del viaggio e del numero, dello spazio come cifra stilistica di un’arte matematica e alchemica, d’ispirazione universalista. Insomma una mostra che cita, ripensa, ricorda, raddoppia e riecheggia. Probabilmente sarebbe piaciuta a Boetti.
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