Dal 30 maggio al 3 giugno la quieta ma dinamica Trento è diventata il teatro principale dell’economia italiana, grazie alla seconda edizione del Festival dell’Economia, promosso dagli enti pubblici e dall’università locale, e organizzato da Il Sole 24 Ore e Laterza.
Fra un dibattito e l’altro su capitale umano e capitale sociale, tra una discussione sul rapporto educazione-lavoro e una riflessione sulla nuova rappresentazione del lavoro nella società post-industriale (forse persino post-terziario avanzato), prestigiose personalità dell’Accademia mondiale dei saperi a tinta economica si sono avvicendate. Tra gli alfieri della manifestazione, hanno fatto la loro comparsa il “cambridgiano” fellow di indiani natali, Partha Dasgupta –ormai un’istituzione fra coloro che indagano la relazione tra sviluppo economico ed economia dell’ambiente– e il “normaliano” Daniel Cohen –una delle anime ispiratrici del movimento no-global con le sue ricerche su crescita internazionale, disoccupazione e globalizzazione. Alla schiera dei pensatori si è aggiunta, quindi, la militia dei politici, a tracciare il bilancio di un anno di governo (Romano Prodi) e a scandagliare l’amletico dissidio tra università pubbliche, private e miste pubblico-private, in merito sia ai diversi livelli di autonomia per gli atenei che alla possibile provenienza dei fondi per ricerca e didattica (Fabio Mussi).
Il Festival si configura come una manifestazione di sicuro successo, che per certi versi riecheggia l’idea di un’università che vada verso il pubblico e, perché no, fatta per un pubblico esteso. Il tema del rapporto tra cultura ed economia (affrontato da Raquel Fernandez) è sensibile e polivalente, e chiama in causa tutte le manifestazioni del pensiero e delle abilità espressive umane, arte in prima linea.
Fin dagli albori della storia, da quando cioè individui di spiccate qualità artistico-letterarie-analitiche hanno rivolto le proprie attenzioni all’introspezione e alla “messa in atto” del proprio potenziale espressivo, il problema primario è diventato quello di rendere fruibile a un pubblico più o meno eletto il frutto delle proprie ricerche. Mutatis mutandis, il principio è rimasto inalterato nel XXI secolo, sebbene i mezzi di propagazione delle informazioni e le strategie di comunicazione di manifestazioni di questa portata raggiungano oggi un bacino di utenti ovviamente elevato a potenza rispetto a quello ipotizzabile per le passate generazioni. Marketing della cultura: questa è la chiave di volta per decodificare festival e sagre dei saperi di vario genere e per dare conto, tra le attività serali d’intrattenimento per i giovani organizzate dal Festival trentino, della presenza di rinomati dj provenienti dalle spiagge di Ibiza e dalla trendy London. L’idea di creare un evento che apra a un pubblico più ampio il rapporto privilegiato con i libri e i loro autori, spesso distrattamente bollato come “tempo libero”, è sicuramente lungimirante; ciononostante, i rischi di mercificazione dei saperi e di adeguamento alle esigenze del mercato non sono completamente da trascurare.
Per certi versi, il marketing culturale è ispirato dalle stesse logiche di mercato che dettano i ritmi della produzione, logiche tese a implementare la customer satisfaction e a impostare l’organizzazione di eventi e attività di supporto alle vendite in funzione di una project orientation (“progettizzazione” di ogni esperienza umana). Tra i rischi insiti in una tale impostazione, non si può trascurare quello di fomentare l’incremento della competitività interna al mondo culturale tra le varie discipline accademiche umane e sociali, così come tra le forme attraverso cui si esplica l’espressione artistica nei suoi diversi rivoli. Arte e cultura rischiano di essere concepiti come prodotti differenziati che rispondono in maniera ineguale all’interesse del pubblico. Tra le conseguenze ipotizzabili, appaiono lampanti i timori di una progressiva rarefazione delle ricerche nelle discipline “meno appetibili”. D’altra parte, in un contesto oggettivo di marketizzazione della società –sempre più appiattita nella prospettiva dell’homo oeconomicus– il tentativo autonomo del mondo della cultura e dell’arte di crearsi un’“àncora di salvataggio” non può che ritenersi strumento necessario per la sopravvivenza.
Come corollario ideale di una manifestazione che mirava a non incappare nella logica esclusivista e settorialista latente nella segmentazione dei saperi, infine, vi è stato spazio anche per momenti di espressione artistica e ars comica. Sui palchi della città si sono così alternati artisti del calibro di Marco Paolini e Antonio Albanese, mentre alcune mostre fotografiche immortalavano la storia dell’economia locale dall’età industriale (Quando a Trento c’era la Michelin, a cura di Franco Filippini) e proiettavano l’arte nel Terzo Millennio (Economia e arte. Dalla bottega al video). A bilancio concluso, ci si può attendere rosee aspettative per la prossima edizione. E augurare che l’evento evolva ulteriormente nella direzione di una più completa inter-disciplinarietà tra le scienze sociali e le scienze umane.
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L’annuncio del Festival
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