Nel 2014 mi trovavo in India per partecipare a una sezione della Biennale di Kochi-Muziris su invito del Museo di Goa (MOG). La mostra, curata da Valentina Gioia Levy, si intitolava Janela. Migrating Forms and Migrating Gods. Per l’occasione, avevo proposto una macchina cinetica a forma di risciò, che integrava un’immagine sacra di una Madonna cristiana. L’immagine ruotava grazie a un meccanismo rudimentale azionato dai pedali: il vortice di colori che si generava provocava nello spettatore uno stato di disturbo, vertigine, confusione — una sorta di sindrome di Stendhal indotta.
L’opera era pensata come una critica all’uso dell’arte da parte della religione come strumento di incanto e persuasione. Ma non è di questo che voglio parlarvi in questa rubrica.
Durante quel viaggio, passeggiando per le stradine di Fort Kochi, mi fermai a osservare un gruppo di operai intenti a realizzare i marciapiedi. Notai a terra delle casseforme di legno, circa 80 × 130 cm e alte 10 cm, al cui interno — dove sarebbe stato colato il cemento — erano state messe delle pagine di giornale di vario tipo. Mi spiegarono che si trattava di un espediente per facilitare il distacco delle lastre di cemento armato, che sarebbero poi state adagiate lungo le facciate delle case. Mi accorsi, osservando una lastra momentaneamente capovolta, che le immagini dei giornali erano rimaste impresse sulla superficie del cemento. Scoprii così che, durante il passaggio dallo stato liquido a quello solido, il cemento era in grado di riattivare l’inchiostro della stampa e assorbirlo quasi completamente.
Scattai alcune foto, come appunti di viaggio, e una volta tornato in Italia iniziai a sperimentare, cercando di replicare ciò che avevo visto in India. Decisi però di sostituire le pagine casuali dei giornali con immagini di paesaggi incontaminati: acquistai vecchie riviste Epoca degli anni ’80 e ritagliai servizi fotografici dedicati a Tahiti e alle Dolomiti. Preparate le casseforme, versai il cemento e, dopo alcuni giorni di attesa, le aprii. Le immagini di spiagge e montagne si erano trasferite quasi totalmente, un processo simile a quello dell’affresco a strappo. Le fotografie apparivano offuscate, impoverite: questa sottrazione materica e la perdita di intensità , mi colpì profondamente.
Lo stesso fascino spinse Niccolò Fano, oggi mio gallerista, a propormi una mostra con quelle opere. Nel 2016 inaugurammo Concrete Archive, la mia prima personale alla Galleria Matèria.
Da allora continuo a realizzare queste “lastre”: ognuna mi sembra un frammento di racconto, un pezzo di memoria che si aggiunge a quel viaggio.
Autore: Stefano Canto
Testo a cura di: Camilla Boemio
Stefano Canto è nato a Roma nel 1974, dove si è laureato in Architettura nel 2003 e dove attualmente vive e lavora. Le sue produzioni artistiche si esprimono attraverso la poetica del luogo, passando attraverso le implicazioni sociali insite nel rapporto tra uomo e architettura. I suoi lavori sono stati esposti in diverse gallerie e istituzioni, tra le quali Manifesta 12 Palermo; Viafarini Milano; Museo dell’IFAN Biennale Dakar, Senegal; American Academy in Rome; Biennale Di Kochi Muziris, India; MAXXI, MACRO Roma; Galleria Matèria Roma; Museo della Triennale Milano; Museo RISO Palermo, Corpo 6 Gallery Berlino; Museo Carandente Spoleto; Fondazione Rocco Guglielmo Catanzaro; Museo Civico del Marmo Carrara. Nel 2005 è stato vincitore del Premio Roma e nel 2009 del Premio Terna 02.
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