Compiler nasce dalla volontà di dare spazio all’arte contemporanea, in particolare a tutte quelle pratiche (lavori video e adio, corti, performance) basate su uno sviluppo lungo un asse temporale. La scelta del dvd come supporto (accompagnato comunque da una parte cartacea) permette al fruitore un grado di ipertestualità sicuramente maggiore rispetto alla sola pagina scritta, grazie ai link che relazionano tra loro i diversi lavori. Non solo: il video diventa veicolo anche per le dichiarazioni e le riflessioni di critici, giornalisti e artisti, a cui è stato chiesto di esplorare le caratteristiche della propria società e di come l’art system si relazioni con essa. Partendo dunque da una traccia (che può essere un video, l’audio di una trasmissione radio, la lettura di un testo, la dichiarazione di un critico…) si ha a disposizione una lista di tracce correlate che formano un percorso di opere.
Ogni numero (che più che come rivista si configura come una piccola monografia e che richiede tempi di realizzazione piuttosto lunghi) si focalizza su una regione del mondo: il primo ha coinvolto “attori” dalla Bosnia Erzegovina, Croazia, Kosovo, Macedonia, Serbia e Slovenia, i prossimi, nei programmi dei curatori, si occuperanno del Sud America e dell’area iraniano-caucasica.
Il sottotitolo –programmatico- di questa edizione, Was Ist Kunst, Marinela Koželj? (Che cos’è l’arte, Marinela Koželj?), riprende il titolo di un video di Raša Todosijlevič del 1978: il volto di una modella (l’opera d’arte) viene ripetutamente “attaccato” da una mano e le si pone ossessivamente la domanda “che cos’è l’arte?”. La modella non può o non vuole rispondere e rimane impassibile –ma indifesa-di fronte all’attacco reiterato.
La curatrice Susann Wintsch, in collaborazione con la videoartista di Belgrado Milica Tomić, ha improntato il primo numero di Compiler sull’idea che l’arte possa costituire un sistema “autocritico” (e lo dimostrano i link tra i vari lavori sul dvd), ma non ciecamente autoreferenziale: il dvd è prima di tutto una testimonianza di come gli artisti e i critici che hanno contribuito abbiano trasposto nelle proprie opere e riflessioni (con modalità diverse) la tragedia della guerra che si è abbattuta sulla loro terra e che ha polverizzato non solo confini geografici, ma anche l’identità e le certezze dei singoli. Come dimostrano il cerchio nero-simile a un buco o, per alcuni, a una cloaca- frutto dell’intervento di Igor Gubić o il video Dream House di Šejla Kamerić, in cui una baracca di rifugiati attraversa (lieve e priva di fondamenta) una serie di paesaggi per poi “riatterrare” nella landa desolata da cui era partita, che segnano amaramente un senso di precarietà.
O come sottendono con ironia i video New York New York, di Sokol Bequiri, dove le note della canzone accompagnano scene di decapitazione di polli in una fattoria (polli che poi si risveglieranno in una paradisiaca Wall Street) e Mondrian ’66-’96, dove un signore di nome Walter Benjamin si impastoia nel tentativo di dimostrare la tesi contenuta nel “suo” celebre scritto L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica…
L’esperienza dell’ex Yugoslavia diventa per le curatrici una sorta di paradigma dello stato della società, in cui la cultura e l’arte diventano forme di resistenza civile: esemplare in questo senso proprio il video di Milica Tomić, On love, afterwards, in cui una serie di vecchi partigiani, intervistati, “scivolano” nella reiterazione delle proprie dichiarazioni, come se l’esperienza di ognuno diventasse epos comune.
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