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A Vettor Pisani – Elogio del Nostos

di - 23 Agosto 2011
Tra la quantità di notizie che confabulano sul web (con biografie sbagliate, dettagli di cronaca incorretti e scorretti, foto e video trafugati), è l’ascendenza nel solco dell’architettura il dato che più verosimilmente s’addice a Vettor Pisani. L’architettura del pensiero che s’incarna nell’immagine e trova contiguità nella vita quotidiana. Così come il “Lutto s’addice ad Elettra”, dove l’architettura del grande poeta del teatro Eugene O’Neill, rivela i contrasti tra il femminile e il maschile e Agamennone, Clitennestra, Oreste e Lavinia consumano sul palco il loro canto tragico. Ma quel malinteso del teatro greco che chiamiamo tragedia male s’adatta alla dipartita di Vettor Pisani. Non c’è tragedia, qui, nessun canto disperato, ma la scelta libera di un Architetto che col compasso ha calcolato giorno per giorno la distanza tra il Sé e l’Infinito, tra il dubbio (declinato con un se minore) e la Verità, tra il quotidiano e quella distanza cui l’Artista non vuole sottrarsi, l’Eterno. E’ tutto quindi un falso, un “Vero falso d’Autore”, (per dirla con Vettor Pisani) o meglio una “verità fatta di mille menzogne” (ancora Vettor), il mormorio di voci di sciacalli che con lo sguardo appannato destinato a vedere solo orrore continuano a fare la ronda come pipistrelli sui dettagli. Non compaiono le Erinni, ma il canto dell’usignolo di John Keats, come grande canto d’amore. L’amore per la vita e per l’arte, e quell’aporia di fondo tra le due con cui si produce il solco che le congiunge e le separa, giorno dopo giorno, generando la distanza che si misura solo col salto. Così lo era, ed era tangibile nelle immagini (per quanto le immagini si possano toccare), in quelle figure costruite su continui salti nella storia, tra gli Eroi del passato lontano e quelli del passato più recente, in quel Pantheon di amici, assurti dalla storia e dal presente, fantasmi in carne ed ossa con i quali, parimenti, si può avere un dialogo privato. Così come insegni tu, Vettor Pisani. Nulla quindi è lasciato al caso. Se non a quel grande Architetto, il Caso, che decide semplicemente il momento migliore. Il “caso fa le cose fatte bene”, dice Duchamp, o meglio, fa “le cose fatte ad arte” ed è una regola aurea cui è impossibile sottrarsi per un uomo che ha centellinato ogni azione nell’arte, misurandola non con la furbizia e il cinismo calcolatore, ma con la genialità del fiuto e la generosità di concedersi al mondo che ha sempre fatto traboccare ogni gesto, per portare a vera consunzione l’atto generatore che in questo si nasconde. E qui, la chiave della grandezza di Vettor Pisani. Qui, dove compare la schiera di divinità della storia della cultura su cui si basa il confronto, l’arte, la poesia, il teatro, la psicoanalisi, la comicità: Oscar Wilde, Karl Krauss, George Bataille, Klossowski, Weininger, Dalì, Duchamp, Leonardo, Böcklin, Freud, Strindberg, Druié, D’Annunzio, Malaparte, Arcimboldo, Bernini, Klinger, Bellmer, Beuys, Yves Klein, Madonna, Francis Bacon, Gino De Dominicis (…). Tutte icone dell’etere su cui misurare la capacità di dialogo, perché il dialogo è possibile solo oltre il presente. Tutte aperture verso il mondo, con cui ridere, o deridersi, perché “soltanto i noiosi si prendono sul serio”.
La Storia, Vettor Pisani l’ha scritta con le mostre. A partire dalla sua prima a La Salita, Maschile, femminile e androgino. Incesto e cannibalismo in Marcel Duchamp (1970), dove la carne era già in putrefazione, fino all’ultima, ancora in corso alla Fondazione Morra, come un segno rimasto in bilico tra la vita e la morte, Apocalypse Now dove si riattualizza (o si rivela) il codice segreto del disegno della sua Grande Opera. Per chi sa vedere, tutto si ricompone. Già dal titolo, tra il presente dello spunto cinematografico e l’horror vacui immanente, cui Pisani ha aggiunto una sua opera pre-istorica, ovvero del tempo precedente agli esordi romani: Agnus Dei 1967, con riferimento a quella prima iniziazione, il Battesimo, cui l’Artista ortodosso della religione dell’arte si consacra e concilia con se stesso, col proprio lavoro, e con quel grande progetto inarrestabile, sempre soggetto a modificazioni, cui soltanto la sua dipartita riesce a dare un termine. Di qui, ogni mostra è un laboratorio in atto, un atto di fede infinita, come la sua totale devozione all’Arte. Al suo mistero, alla sua appartenenza ad una società segreta fatta di singoli, e di solitudini, misurate con l’incommensurabilità del Cosmo. E il senso di sfinimento fisico che ogni volta giunge ad una certezza innominabile: l’arte (è) salva.
Raggiunta ogni certezza, così come dimostrano i segni (che son da prendere “per miracoli”, come sostiene il fabbro TS Eliot), l’unico modo per rimetterla in discussione è partire per un viaggio nuovo, con gli occhi trasparenti e puri, con il coraggio di un Titano che non ha mai cercato sconti.
Dovevamo incontrarci oggi, secondo uno di quei tanti appuntamenti presi per telefono, appoggiati al caso, sempre da confermare. Ma quel grande appuntamento, che chiamavamo “uscire dal mondo”, come in un libro di Elemire Zolla, s’è fatto impellente, e la mano dell’Architetto ha preso il timone del condottiero che ha fiutato il vento giusto per la via del Ritorno. Sulle vie del Nostos, come sanno fare i migliori Eroi Greci. Come Ulisse, su cui costruimmo, con Beppe Morra, la grande mostra ad Ischia, patria natia ed elettiva. Il ritorno sull’onda più lunga in cui hai navigato era nella consapevolezza che il passaggio più stretto passa per Nekya, l’uscio di quella porta nera chiusa ermeticamente dietro lo studio doveva finalmente dischiudersi.
“Sono sempre gli altri a morire”, è scritto sull’epitaffio di Marcel Duchamp. “Sono solo gli altri a morire”, hai voluto correggere tu, lasciando me e gli altri amici a chiederci: “Cosa c’entra la morte?” Nulla. Così come avevamo architettato, esiste solo il Nulla, al quale avevamo dedicato un Museo da inaugurare con l’aristocratico benestare di tutti i “cittadini defunti del Cimitero Acattolico”. Il Cimitero degli Inglesi, l’altra patria elettiva. Lì dove ha sede monumentale la poesia di Keats e Shelley. Oggi, avremmo potuto ridere anche di questo. Oltre che di quelle mille menzogne che non fanno una verità e si ricorrono sui giornali, aggiunte a quelle della Città Eterna solo a parole che non ti ha regalato nulla, ed hai deciso di volteggiare dall’alto, posto sul confine “borderline” dell’apolide, cittadino del mondo, in un angolo di terra dove respira l’Eterno: tra le divinità egizie, i gatti che si pongono come sfingi sotto la Piramide e il Pantheon degli Eletti. E le pizzerie di Testaccio. L’appuntamento era li, caro Vettor, artista del mistero e dell’Eurasia, per un rituale rosacrociano col vino rosso a festeggiare l’arte. E avremmo riso anche di questo.
angelo capasso

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