Categorie: altrecittà

Due uomini e una pecora

di - 13 Giugno 2016
Racconti di coppia, quando gli ovini sono galeotti: «un giorno, in un parco nel centro di Torino, abbiamo visto un gregge di pecore al pascolo». Tale vicenda non ha coinvolto nessuno che si chiami Titiro o Melibeo, benché la scena – fin troppo bucolica per essere vera – sembri calzare attorno a loro più che a chiunque altro. Al contrario dei protagonisti virgiliani, questi due hanno pure avuto la possibilità d’immortalarla quella scena sufficientemente strampalata e, successivamente, rielaborarla da par loro.
A pelle diversi e complementari, Alis/Filliol (Andrea Respino, Mondovì 1976; Davide Gennarino, Pinerolo 1979) sono la coppia di scultori più alternativa su piazza al momento. Già passati da Genova nel 2012, ospiti della galleria Pinksummer, fino al 30 settembre prossimo li potete trovare sempre lì per la loro seconda personale, titolo Ultraterra. Come possa il duo – tra i più convincenti occupanti delle stanzette volute da Vincenzo Trione per il Padiglione Italia all’ultima Biennale di Venezia – arrivare a presenziare una personale partendo dalle pecore, in più scegliendo per immagine di cartolina uno scatto che sembra uscito dall’intervallo Rai, è storia di coincidenze e progetti maturati nel tempo.

Una strana storia, che tra un ovino e l’altro mette anche del poliuretano espanso, una testa in gesso fatta scoppiare e il calco in negativo di quest’ultima. E d’accordo, se pensate la faccenda sia sempre più assurda e complicata non avete tutti i torti, ma è solo apparenza. O finzione, parola che tornerà qui molto spesso, declinata variamente. Basta qualche scambio di battute con Alis/Filliol per inquadrare i lanuginosi ovini in un discorso scultoreo sul paesaggio che tratta sia la scultura, sia il paesaggio, in modo anticonvenzionale. Se si vuole il progetto genovese è l’appendice, una delle tante, di un linguaggio plastico nelle sue applicazioni “smisurato” e che il duo porta avanti con costanza; in questo caso specifico a far scattare la scintilla è la deduzione logica che «le pecore al pascolo nella natura sono la norma, ma non in un parco cittadino, che a sua volta è già finzione della natura dentro la città», come ci spiegano. Anche la scultura di per sé è finzione, e c’è il negativo di quella testa esplosa dopo essere stata riempita di poliuretano, riguardo cui raccontano «avevamo questo calco da tempo, passando in studio ci cadeva l’occhio sopra, e pensavamo che prima o poi qualcosa ne avremmo fatto».
Detto fatto, ne hanno fotografato l’interno e – previa selezione degli scatti – tratto una grande tappezzeria in strisce, applicate proprio come quelle che si usano per rivestire le pareti di casa, a ricoprire due pareti perpendicolari della Pinksummer; due grandi muri di anfratti e chiaroscuri potenti, di superfici riflettenti e opache, lisce e ruvide, un insieme che Antonella Berruti di Pinksummer identifica come «quasi un paesaggio romantico alla Friedrich». Avvolgente horror vacui di uno spazio da esplorare, in cui si è optato per una sorta di potenziamento della finzione con la specularità delle altre due, completamente bianche. Infatti la cosa più interessante per Alis/Filliol non sembra costruire un’ambientazione virtuale, piuttosto spezzare quella virtualità data, farla assaggiare e poi toglierla di bocca, operando – più che sulla percezione individuale – sulla finzione tout court.

Perché spesso ciò che si vede non è quello che si crede di vedere. Pertanto si può chiamare paesaggio anche una scultura che con quello non ha nulla a che spartire e, complice la fotografia, generare un percorso di finzione in finzione il cui ultimo stadio è un’ambientazione assurda, vagamente inospitale; uno spazio dove si può – o deve – ancora fingere, straniandosi con del cotone, quattro stecche di legno rimediate e del nastro adesivo. Per farne cosa? Per scolpire ad hoc una pecora, l’ennesima che definisce questo progetto-storia. Una sorta di simulacro appena abbozzato, pecora aliena in un ecosistema che non le appartiene, un gioco simpatico ed elementare con cui Alis/Filliol piegano ancora una volta la scultura ai propri canoni operativi e logici. Irriverente, rivolge al pubblico il morbido posteriore, ipotecando la sua discendenza iconografica caravaggesca; può apparire una provocazione, ma in realtà lei «guarda il paesaggio, che le è totalmente estraneo, in uno scambio di sguardi con quel volto che sembra manifestarsi».
Il volto, quale volto? È una suggestione (più che evidente, appena lo dite ad Alis/Filliol vi rispondono «questa cosa ce l’hanno detta tutti»), rigurgito figurativo di stampo classicista nemmeno messo in conto, e che ritorna così, nel mezzo del paesaggio, anche senza il volere citazionista dei diretti interessati. Un evento che alla fine rientra nell’imprevedibilità con cui nascono e si sviluppano gran parte dei loro lavori, quel divenire/mutare che è una formula costante e anche strettamente interconnessa alla praticità tattile di parecchi lavori. A quanto pare infatti la gente è desiderosa di maneggiare le opere di Alis/Filliol, come raccontano d’aver ampiamente sperimentato attraverso il grasso modellabile delle sculture Fratelli, o nella plastilina lucida dei Mofo che «in tanti andavano a toccare, scambiandola per ceramica». Detto per inciso, la pecora in puro cotone non è da meno, una palpata te la tira via.

Divagare con Alis/Filliol è facile, e nella saletta-studio della Pinksummer le possibilità non mancano. La personale si completa di altri lavori, compresi due disegni, parte creativa che confessano d’esporre raramente; benché a quanto pare fondamentale, giacché «spesso per un progetto partiamo dai disegni, prima individualmente, poi li confrontiamo, ne traiamo degli altri insieme e mano a mano arriviamo all’opera finale». Come i disegni, i due hanno appeso al muro una piccola scultura creata con la tecnica della stampa 3D, versione pocket di un più grande progetto milanese nato in orizzontale; graziosa nella sua complessità incomprensibile, in realtà raffigura la larva di uno scarabeo in movimento («quando la scansionavamo reagiva alla luce cambiando continuamente posizione» dicono), con le zampette che moltiplicandosi fissano la sua evoluzione futurista nello spazio. Scoprire che «all’interno è cava» nel contesto di Ultraterra e dei suoi spazi interiori crea un parallelismo troppo ammiccante. E se la domanda è sulla possibilità che quella scultura possa far nascere – anzi, con Alis/Filliol si è capito che sarebbe meglio dire “maturare nel tempo” – un progetto futuro, la risposta è un sorpreso «perché no, potrebbe». Ma questa è (o sarà) un’altra storia.
Andrea Rossetti

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