L’atmosfera del teatro è cupa, tetra, a tratti inquietante. Sembra voler ricreare la sensazione, che si prova quando si viene a sapere che il titolo scelto dai Ferrariofrères è tratto da un passo dell’Inno alla Morte di Bade il Venerabile (monaco ed erudito dottore della Chiesa, vissuto tra il 672 e il 735). Avanzando, attraverso l’ex-platea, si trova un video tapis-rulant che riproduce, tramite l’accostamento di lettere, cifre e colori, il DNA. Ovvero l’uomo che avanza (evolve) seguendo il percorso tracciato dal codice genetico. Il cammino che porta alla visione del video sulla parete di fondo, obbliga lo spettatore a calpestare le videoproiezioni del codice genetico, ricreando metaforicamente quello che succede oggi. I video-modelli di DNA scricchiolano sotto i piedi, proprio come l’antica pavimentazione lignea che li accoglie. Scricchiolii provocati da cause di carattere naturale, quelli del legno (tarli e altri parassiti), mentre di carattere artificiale sono gli esperimenti di miglioramento del DNA, di creazione di O.G.M., di tentativi di clonazione, che possono minare la stabilità del codice.
In questo momento di duplice passaggio -fisico da un lato (dalla platea al palcoscenico) e audio visivo dall’altro (dal pavimento alla parete di fondo)– due figure, ai lati della sala, ripetono il loro saluto in cinquanta lingue diverse (video tratti da una performance tenuta a Ferrara nel 2004). Ultima tappa, questa, prima del viaggio necessario (traduzione italiana del titolo) che ci aspetta alla fine, oltre il boccascena. Di fronte ai nostri occhi si mescolano immagini di laboratori, di materiale tecnico, di ingrandimenti della mitosi cellulare, in una sorta di discesa verso la visualizzazione di ciò che, la proiezione sul pavimento, dava in forma di modello. Come dei difetti di pellicola, alternati in un montaggio oppressivo, irrompono nella visione scene di violenza, di razzismo e persino tranche in cui esseri umani, riprodotti in serie, scorrono su di un nastro trasportatore fino a cadere non si sa dove.
I Ferrariofrères, come è loro consuetudine, fanno dell’audio una parte fondamentale dell’opera. Infatti, nel primo settore, durante la “ripetizione differente” dei saluti, le voci dapprima scandiscono chiaramente le parole, ma poi, tramite accelerazione, si tramutano in un intenso suono acido. Nel secondo, invece, il video è costantemente accompagnato da paranoiche melodie e ritmi maniacalmente iterati. Ad amplificare la tensione che lentamente trasuda col susseguirsi dei fotogrammi.
claudio musso
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