“Ecco finalmente un artista che ci dà creature vive e capaci di soffrire le loro passioni: soprattutto ecco un uomo che sente la sana voglia di vivere. Limpidezza di colore: armonia di toni e di figure”. Così nel ‘29 la scrittrice umbra Maria Luisa Fiumi giudicava il lavoro di Amedeo Bocchi (Parma, 1883 – Roma, 1976), pittore tanto ritroso quanto ambiguo e complesso nelle tematiche. Bocchi seppe coniugare differenti registri artistici pescando di fiore in fiore tra le suggestioni d’inizio secolo, dal Simbolismo allo Jugendstil, dalla leggerezza del Liberty all’impegno della pittura sociale. Mai succube di alcun maestro (dal suo insegnante Cecrope Barilli a Gustav Klimt), Bocchi fu interprete del suo tempo ma con una caratteristica saliente: la malinconia. Ne dà conto la mostra parmense curata da Luciano Caramel, che ha l’intelligente intento di riproporre pressoché l’intera produzione dell’artista (un’ottantina di lavori) radunando non solo le note opere della Galleria Nazionale di Parma e della Ricci Oddi di Piacenza, ma anche le tele provenienti da collezioni private e dagli eredi del pittore. L’occasione, dunque, è unica e abbastanza ben sfruttata negli allestimenti, anche se un po’ dispersiva nella monumentale articolazione in quattro sedi, fatta salva l’obbligatoria tappa alla Sala del Consiglio della Cassa di Risparmio di Parma, dove campeggia la decorazione realizzata da Bocchi tra il 1913 e il 1916, tra i più fulgidi esempi di Liberty nostrano.
La malinconia, si diceva. Nella pittura di Bocchi anche nei
Le tragedie familiari segnarono Bocchi nel profondo. Ciononostante, “egli è veramente dei pochi -gli eletti- che anche nel fondo più buio della propria umanità possono sempre trovare un divino riflesso di stelle” (Fiumi). Ne sono testimoni i densi ritratti del Povero e dei Due vecchi, oltre alla penetrante capacità di denuncia sociale dei Pescatori delle Paludi Pontine. E se i paesaggi di Terracina sono momenti di puro abbandono, col tremendo La malaria (1919) e lo struggente A sera sui gradini della Cattedrale (1920) Bocchi torna al suo ovile interiore di inconsolabile sconforto. Dopo i lutti familiari, la sua pittura si idealizza in un itinerarium mentis verso l’assoluto.
L’arditismo cromatico, che torna negli Anni ’70 in Autoritratto in giardino con le modelle e Fenicotteri -ricordando lo sgargiante Nel parco dei ruggenti Anni ’10- esplode nel disperato olio su legno dipinto un anno prima della morte, Pensando alla teoria di Newton: atterriti uomini verde e giallo acido trascinati dalla forza di gravità verso il basso. Angeli caduti dal paradiso costretti a piombare nel nostro inferno quotidiano.
elena percivaldi
mostra visitata il 25 marzo 2007
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Bell'articolo, complimenti! Non conoscevo Bocchi, andrò sicuramente a vedere la mostra, mi avete fatto venire voglia di conoscere questo artista così sfortunato e profondo. ciao e buon lavoro.