L’opera di Lucio Fontana (Rosario di Santa Fé, Argentina, 1899 – Comabbio, Varese, 1968) è stata analizzata fin nei suoi aspetti più nascosti. Non c’è storico dell’arte che non si sia prima o poi confrontato con questa pietra miliare dell’arte del Novecento. Poi ci sono state le celebrazioni del centenario, che hanno fatto del 1999 “l’anno di Fontana”, con convegni, mostre, pubblicazioni scientifiche.
Questa mostra, curata da Silvia Pegoraro nel borgo di Castelbasso, vicino Teramo, propone oggi un approccio impegnativo e arduo, ponendo l’attenzione sull’eredità di Lucio Fontana. Un terreno ostico. I grandi innovatori della storia dell’arte, si sa, ammettono infatti l’imitazione, difficilmente la continuazione. Basti pensare a Caravaggio: nel caso del suo vasto ed allargato seguito la storiografia ha sempre parlato di caravaggismo, che è più una maniera che una scuola; addirittura Bartolomeo Manfredi inventava il Manfrediana Metodus, una sorta di canone da seguire per imitare analogicamente il “maestro”.
Il caso di Fontana è ovviamente diverso, tuttavia la sua riflessione su uno spazio concettuale, trascendente, metafisico, assume il valore della monade pitagorica, diventa un elemento universale e come tale è difficile pensare ad una concreta successione causale. In ogni caso si tratterebbe di una eredità inesigibile. Altrettanto innegabile del resto è l’enorme influenza dell’opera di Fontana sulla nascita di nuove temperie creative, su una diversa disposizione ad affrontare determinate tematiche costruttive e spaziali; ambiti
Il nucleo centrale è rappresentato ovviamente dall’opera di Fontana stesso, ampiamente illustrata nelle sue diverse espressioni dai trenta lavori esposti, alcuni dei quali inediti: dai vari “Buchi” e “Tagli”, ad alcune straordinarie ceramiche policrome, a due “Teatrini” del ’64. Un’ampia ed articolata selezione, con un tratto unificante che così la curatrice pare individuare, nel suo saggio in catalogo: “I mezzi espressivi – fra i quali è da includere dunque anche lo spazio stesso dell’opera – non servono a produrre l’opera, ma sono l’opera”. Fra gli eredi di Fontana proposti non poteva mancare Piero Manzoni, vicino all’artista anche nella sua breve esistenza, forse fra i suoi più diretti continuatori, anche a livello concettuale: “Le “linee” infinite di Manzoni –scrive ancora Pegoraro- possono trovare un collegamento con i “tagli” di Fontana, soprattutto se questi vengono intesi nella loro essenza ideale, non gestuale”. Nella dinamica spazio reale-spazio virtuale operano anche Enrico Castellani, presente in mostra con le sue rigorose introflessioni-estroflessioni di tessuto, ed Agostino Bonalumi, che presenta superfici più articolate e sagomate, quasi “organiche”. Diversa è la posizione di Paolo Scheggi, in cui la dinamica spaziale appare meno lirica e più costruita, quasi meccanica, ottenuta con la sovrapposizione di diversi piani sagomati. In un’ottica differente interagiscono con lo spazialismo alcuni protagonisti dell’arte Cinetica ed Optical, come Getulio Alviani, Gianni Colombo e Grazia Varisco, più coinvolti dagli aspetti attinenti alla percezione ed a certe aperture alla tecnologia, oltre che dall’essenziale ruolo della luce come costruttrice dello spazio. Un’altra sezione accoglie poi le opere di alcuni artisti più giovani, che comunque nella loro ricerca testimoniano, a vario titolo, la persistenza e l’intangibilità delle aperture di Fontana: Carlo Bernardini, Pino Barillà, Nicola Evangelisti, Emanuela Fiorelli, PaoloRadi.
Una menzione meritano sicuramente l’allestimento, con uno spazio espositivo molto curato che sorprende trovare in un piccolissimo borgo perso nella campagna abruzzese, il bel catalogo Skira e l’impeccabile organizzazione, che addirittura propone oggetti di merchandising che siamo abituati a trovare solo in grandi istituzioni museali. In conclusione una buona mostra con qualche forzatura critica, che riteniamo tuttavia inevitabile quando si vuole fare realmente critica, e non mera compilazione.
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