Una mostra in tre passi. Il primo step sorprende il visitatore nell’atrio antistante l’ingresso del museo, sotto forma di registrazione del canto di alcune cornacchie. Accorgersene non è tassativo. Secondo step, subito dopo la biglietteria, è la proiezione di un video, o meglio di una pellicola 36 mm, priva di audio. L’opera in questione, Forest From Above in Reverse (2007), rivela in Jordan Wolfson (New York, 1980; vive a Berlino e New York) uno spirito smaccatamente concettuale, che si esplicita con la citazione dei meccanismi operativi di questa corrente artistica.
Uno degli stratagemmi più diffusi in area concettuale, infatti, consisteva nel creare un cortocircuito significativo attraverso l’utilizzo tautologico di parola e immagine. La differenza in questo caso risiede proprio nel mezzo utilizzato per la presentazione dell’immagine: se per Joseph Kosuth era la fotografia, o l’oggetto in quanto tale, in questo caso è il film.
Il terzo ed ultimo step, salite le scale attraversando le altre mostre ospitate dalla Galleria, è Landscape for Fire (2007), opera commissionata e realizzata per l’occasione. La video-performance riproduce, chiaramente e intenzionalmente, l’azione ideata e realizzata dall’inglese Anthony McCall (St. Paul’s Cray, UK, 1946; vive a New York) nel 1972. La volontà di McCall era diretta alla creazione di “sculptural performances involving rectilinear grids of small fires” ( in Anthony McCall: Talks about his “solid light” films, di Jeffrey Kastner, ArtForum, estate 2004).
Per la cronaca, il tutto consiste nel filmare alcuni performer impegnati nell’atto di creare una struttura a losanga (di chiara derivazione minimal) con dei contenitori dove vengono posti dei fumogeni, in una location outdoor che per l’ampiezza ricorda i luoghi preferiti dalla Land Art.
Come definire a questo punto il rapporto tra l’opera di McCall e quella di Wolfson?
Nel caso dell’artista americano sarebbe quanto meno discutibile utilizzare (e reintrodurre) il concetto di copia, ormai vetusto, fuori moda nel linguaggio della critica d’arte e ricco di ambiguità se rapportato all’arcinoto testo di Walter Benjamin (quello del 1936, si intende). Si fa strada semmai il termine ripetizione, più volte utilizzato da Hal Foster nel suo Il ritorno del reale, ma già masticato da altri critici europei, soprattutto in abbinamento a quel “differente” di deleuziana memoria (Differenza e ripetizione è uno dei testi più famosi dell’autore). Ma come era già accaduto in altri lavori (The Crisis, 2004, ad esempio), lo spirito ironico e ludico che pervade la poetica di Wolfson spazza via i criptici intellettualismi e per la sua operazione propone l’etichetta, ben più adatta sia ai tempi che alle intenzioni, di cover.
L’artista infatti, ri-mediando la soluzione del suo predecessore pensa, a ragione, di non sminuire l’originale, ma di riportarla in auge magari, quasi fosse un tributo.
link correlati
www.jordanwolfson.org
claudio musso
mostra visitata il 20 maggio 2007
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