Fuori dai circuiti convenzionali si finisce sempre per trovare qualcosa di buono. Tra le architetture bianche e le stratificazioni di stili della graziosa Terlizzi, spicca una palazzina antica: come segno distintivo, una maestosa bifora. Qui, Cinzia Cagnetta, padrona di casa e gallerista di Omphalos, ha plasmato gli ambienti per far convivere capitelli e camini, arcate a sesto ribassato e travi a vista con situazioni espositive, magari invasive e stranianti, come “Adios” di Guillermina De Gennaro, a cura di Pietro Marino.
Sono armonizzati “…echi di un’Argentina vissuta nell’innocenza infantile, celata con cura in un pugno di bimba. Volti, canti, uccelli, navi … un cubo di mondo portato con sé per tutta la vita …, un tentativo di mettere ordine alla commistione di culture ed esperienze di vita che hanno arricchito il percorso della giovane italo- argentina, da sempre connotato dall’ossessione tematica della dimora.
Partita da Buenos Aires all’età di sette anni, l’accompagna una nostalgia che non vuole ammettere (“…adiòs è il viaggio senza nostalgia in una parte di sé…” ) e l’unico rimpianto di aver perso l’occasione di conoscere luoghi e atmosfere che suo padre Francesco, barese, continua a raccontare in musica.
Una musica fatta di tanghi e bolero, chitarre e bandoneòn, giusto sottofondo al percorso della mostra che non cede ad alcun patetismo, a nessuna volontà di assumere argomenti sfruttati, quali l’esilio, il nostòs, il viaggio.
Del mancato incontro di Guillermina con la terra degli emigranti italiani resta solo il senso di sospensione rintracciabile nella ripetizione di uno stesso volto femminile dai tratti orientali (modificato in piccoli dettagli, lì dove vibrano le patine lucide o opache, quasi impercettibili della pittura a tecnica mista), nei colori pallidi, nel volo regolare di stormi di uccelli, nelle sagome di navi che salpano, nel biancore di approdi irraggiungibili.
È la memoria a reggere il gioco. Una memoria apparentemente ancora fresca per padre e zio di Guillermina che, sorpresi da una videocamera, ricreano atmosfere del disperso trio musicale Los Pètalos.
Una memoria che sovrappone anche tempi e spazi: la realtà al di fuori del video (sul leggio, nel corridoio della galleria, il titolo di una canzone di papà Francesco “Que nadie sepa mi sufrir” ,“Che nessuno sappia il mio dolore”), il passato nelle immagini del trio fissate alle pareti, l’oggi senza rimpianti scritto negli occhi scuri di Guillermina.
Tutto è assurdo e niente è particolarmente definito, tranne il volto orientale che si ripete sulle pareti ossessivo, dallo sguardo intenso e malinconico. Forse un personificazione della memoria: anch’essa incerta per natura, meticcia come l’enigmatica ragazza dagli occhi a mandorla.
giusy caroppo
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