Il concetto della vertigine, affrontato dal pittore Filippo Marignoli (1926 – 1995) nella sua ultima produzione pittorica, è in realtà sempre esistito sin dai suoi primi lavori.
La sua formazione artistica comincia negli anni Cinquanta, nel periodo di sviluppo dell’indirizzo di ricerca definito dell’Informale, e la sua creatività coinvolgeva lo sguardo dello spettatore con un’emozionale vertigine di orizzontale estensione. Prende parte dal ‘53 al cosiddetto Gruppo di Spoleto (Ugo Rambaldi, Giuseppe De Gregorio, Filippo Marignoli, Giannetto Orsini, Piero Raspi, Bruno Toscano), aperto ad ogni linguaggio e capace di diffondere il variegato lessico figurativo a livello nazionale grazie anche al contributo del critico bolognese Francesco Arcangeli. Nei primi Sessanta si trasferisce in America dove comincia un percorso di ricerca che lo farà approdare ai suoi “abissali paesaggi”.
La mostra, presso il Museo Archeologico dell’Umbria di Perugia, comincia proprio con opere tratte dall’ultimo periodo, fine di una ricerca che lo ha portato ad una personale interpretazione del paesaggio. Le isole ritratte nelle sue opere non sono viste nei naturali confini emersi, ma in una visione che privilegia l’osservazione sezionata verticalmente. Le terre emerse appaiono come sostenute da un mare profondissimo a strapiombo, difficilmente immaginabile, data la sua “infinità”, se non attraverso l’immedesimazione mentale che è stata prima di tutto quella dell’artista. Anche le onde marine, rappresentate nei suoi paesaggi, sono solo una piccola realtà sostenuta da uno strapiombo mentale, che amplifica spontaneamente quello naturale. L’allestimento presso la Sala dei Bronzi del Museo Archeologico crea un singolare insieme. I paesaggi di Marignoli specchiano idealmente i luoghi in cui sono stati ritrovati i reperti. Stavolta ad affiorare dalle profondità non sono le isole ma i reperti stessi, testimonianza che emerge dall’abisso del tempo in un immaginario contrasto con la quotidianità che essi rappresentano. A rendere più concreta la visione dell’artista c’è anche l’utilizzazione del grande formato, prerogativa che però non è mai mancata dalla sua produzione. La mostra comprende anche opere del periodo iniziale in cui la ricerca “informale” è la base della sua costante maturazione, passata attraverso monocromi di densa tessitura fino ad arrivare ai suoi paesaggi verticali.
daniele di lodovico
mostra vista l’8 aprile 2004
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