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L’intervista/Luigi Presicce | “Il mondo mi deve aspettare”

di - 18 Novembre 2013
Hai dichiarato diverse volte di voler essere un  “artista italiano”. Di continuare a lavorare in questa direzione per definire la tua specificità culturale e territoriale. Nell’era delle formule identitarie globali, appare una posizione in controtendenza, ma fino a che punto si può ancora parlare di una ricerca nazionale, in un sistema di formazione veicolato attraverso borse di studio, premi e residenze dislocate nel mondo? Ha senso oggi parlare di artisti italiani piuttosto che francesi o americani o sarebbe meglio racchiuderli nei confini di un linguaggio comune che a mio avviso diventa nei casi più estremi quasi una maniera?
«Nazionalismo a parte, sono convinto che ogni artista deve parlare al mondo attraverso i codici territoriali che lo rappresentano, ogni sistema culturale è completamente differente dall’altro e questo è una sfida ovviamente. Oggi il mondo è una grande piazza dove tutti possono accedervi e contribuire a uno sviluppo. Ci sono due modi di partecipare a questo sviluppo, uno è quello di arrivare in questa grande piazza e, da straniero, cercare di raccontarne la storia, sapendo che chi è nato in quella piazza certamente lo farà meglio, oppure portare qualcosa di nuovo che arricchisce sia lo strato culturale della piazza sia l’artista stesso che si confronterà con il luogo e ne trarrà beneficio. Io, come artista, adotto il secondo metodo, parto già con la mia idea e la modifico in base a quello che trovo sul posto, tanto che poi il “luogo” entra nella mia opera e lo caratterizza, rimanendo sempre coerente con la mia ricerca. L’omologazione globale a mio avviso sta appiattendo la ricerca, tanto che ritroviamo artisti simili a latitudini completamente agli antipodi… essere italiani comporta delle responsabilità, siamo concittadini di Giotto, Piero Della Francesca, Beato Angelico, Pasolini, Carmelo Bene…non ci possiamo permettere una leggerezza non consapevole».

La tua è un’arte colta, ma non propriamente concettuale. Ad un primo impatto potrebbe sembrare didascalica e abbordabile, ma ad una lettura più attenta risulta impregnata di rimandi e riferimenti tanto da diventare indecifrabile. L’insistenza sulla forza simbolica dell’immagine sembrerebbe riscrivere una nuova teoria iconografica. Potrebbe essere questa una chiave di accesso al tuo lavoro?
«Semplicemente non siamo più abituati a leggere un’opera d’arte per come andrebbe letta, e ci soffermiamo sull’artista, su come porta i capelli, sul sistema in cui opera, le gallerie, i curatori e le altre cose che sono fuori dall’opera. L’opera per essere considerata tale deve avere una propria identità, che esula dall’artista che l’ha creata e dal contesto in cui è stata prodotta. So che dire questo è contro tutto quello che stiamo vivendo in questo momento, ma come vediamo i musei sono pieni di opere d’arte, non di mummie di artisti o galleristi e curatori in formalina».
Il bombardamento di significati, rimandi, citazioni, allegorie, culture, ed anche il “fermo immagine”, potrebbe contrastare il flusso continuo e velocissimo al quale siamo sempre sottoposti da parte dell’informazione, del marketing globale, artistico e culturale? Potrebbe la lentezza e l’immobilità essere l’unica speranza di riflessione e sopravvivenza in un mondo veloce e superficiale?
«Non lo so, è una domanda new age (?), io non mi posso interessare della vita degli altri e di base non mi interesso di attualità. Se il mondo sta correndo, buon per lui, arriverà prima, ma sarà costretto ad aspettarmi. La mia è una ricerca che guarda con occhio pittorico e architettonico, la fermezza dello sguardo è data dalla monumentalità della visione, dal suo essere in qualche modo scenario di una epifania. Ogni gesto ha la sua importanza quanto ce l’ha il suo non compiersi, come è altrettanto politico chi decide di non esserlo. L’immobilità è grammatica di una narrazione effettuata per simboli o significanti, questo crea un linguaggio che trova voce nella semantica dell’opera».
Trovo il tuo, un lavoro più “contemporaneo” del presente, dettato da un tempo ed uno spazio parallelo a quello reale, quasi la possibilità di vivere un futuro, con una memoria ben chiara e un presente che non esiste perché non vissuto, quindi neanche mai trascorso. Per te cosa distingue e caratterizza la contemporaneità di un artista e di un lavoro?
«Ogni opera dell’uomo è storia di una civiltà, quello che riusciamo a raccontare attraverso una bellezza immutevole è degno di essere considerato contemporaneo nelle sue diverse sfaccettature e inflessioni, ma soprattutto confini. Quando la nostra civiltà verrà studiata da quella successiva, si saprà cosa è stato contemporaneo».
Negli ultimi anni, hai abbandonato la pittura e la scultura spostando il tuo interesse verso la performance, la fotografia e il video, facendone un uso non canonico. Quasi volessi “pensare” la pittura stessa attraverso altri media, ripercorrendo l’immobilità dell’azione e la dilatazione estrema del suo tempo. Nella tua pratica l’idea costruisce l’opera superando il significato e il valore del mezzo, oppure la sperimentazione dei diversi mezzi alimenta l’idea?
«Non sono uno sperimentatore, forse solo un ricettivo, di fatto non ho mai scattato una foto in vita mia, né mai girato un video, perché non lo so fare né mi interessa imparare. Il passaggio da una visione pittorica bidimensionale a una tridimensionale è stato semplice e immediato anche se graduale, nato da esigenze interiori prima che esteriori. Sono passati sette anni dall’ultima mostra con quadri e sculture, non sono pochi… e come quando due artisti (io e Luca Francesconi) decisero di aprire uno spazio espositivo per promuovere altri artisti in una città come Milano, sembrava una cosa impensabile, assurda, scandalosa… poi ne sono nati molti altri però! Il mezzo di per sé non ha nulla da dire, è solo uno strumento che aspetta di essere utilizzato. Chiaramente ogni mezzo risulta meglio indicato per esprimere un determinato messaggio anziché un altro, perciò non ha senso spedire dei gigli bianchi via sms».
Nelle opere lo “spazio scenico” dove avviene l’atto, pregno di iconografia, rimandi e citazioni, scaturisce da una sceneggiatura mentale e visionaria? Gli attori seguono le tue indicazioni? Come definisci le tue azioni, è giusto chiamarle performance?
«Nel mio caso scrivo e definisco tutto nei minimi dettagli mesi prima che la performance abbia atto, non c’è posto per la visionarietà o l’improvvisazione e tutto è estremamente riscontrabile. Ho un certo numero di collaboratori fissi (attrezzista, costumista, attori, fotografi e video maker), che si potrebbero considerare come una compagnia vera e propria. Questo porterebbe a collocare il mio lavoro molto vicino a quello di un coreografo teatrale, benché l’ambito e le finalità siano completamente differenti. Performance è un termine canonico, che indica una prestazione, e nell’arte viene considerata una categoria, diversamente dal teatro o dal cinema. Per quanto mi riguarda adotto questo termine semplicemente per pigrizia visto che niente si svolge in maniera canonica, e poi definire le cose spetta ai critici e agli studiosi… avanti allora!»
Chi sono e perché hai scelto i “fedelissimi” con cui lavori soprattutto in Puglia, dove sei nato e cresciuto? Quanto il loro operare è pura mediazione nel realizzare l’opera e quanto creazione?
«Senza questo gruppo di persone nulla sarebbe possibile oramai e questo solo perché c’è completa fiducia da parte mia e loro. Non si tratta di un rapporto scandito dal guadagno, anche perché troppe volte abbiamo lavorato senza ricavare un centesimo e semmai è andata bene quando abbiamo speso poco. Credere nelle idee è la base del mio rapporto con i miei collaboratori. Il confronto c’è sempre e tutti lavorano affinché il risultato sia straordinario, ovviamente è un lavoro di squadra che funziona proprio perché c’è un copione al quale attenersi. Questo vale per tutti, compresi fotografo e video maker che seguono le mie istruzioni alla lettera».

I materiali con i quali realizzi gli abiti e gli oggetti hanno una valenza imprescindibile dal loro utilizzo? Una sorta di processo combinatorio “alchemico” dei segni e dei significati?
«Le mie non sono ricostruzioni storiche, quanto costruzioni astoriche e in quanto tali tutto deve essere lì con un senso specifico ben preciso. Strumenti di scena e costumi sono realizzati per essere parte di quella specifica figura allegorica all’interno di quel determinato “quadro” con la loro durevolezza o eccessiva precisione. Il tempo di impiego non è paragonabile con il tempo di produzione, se una performance dura solo due ore, uno strumento in bronzo magari ha passato settimane o mesi di lavorazione, ma questo è estremamente coerente con il risultato e la tensione che si vuole ottenere. Se in scena ci deve essere un piede di bronzo bruciato (La gloria del mondo, 2011), null’altro sarà all’altezza di questo, anche se dopo la performance non verrà mai più utilizzato, né venduto come cimelio. Lo stesso vale per i costumi cuciti sartorialmente su mio disegno, anch’essi avranno vita breve. Non ci si può improvvisare, è ancora una volta questione di responsabilità, non si può pensare di ingannare chi si ha di fronte. Come artisti abbiamo un ruolo ben preciso, non siamo soubrette, non dobbiamo intrattenere la gente annoiata».
È in corso la tua personale alla Galleria Renata Bianconi di Milano. Una mostra articolata in cui sono esposti il video della performance L’invenzione del busto, realizzata in precedenza nell’ambiente sotterraneo della galleria, lavori fotografici e una ricostruzione del tuo studio con oggetti ritrovati, di ricerca e di scena. Sembra un percorso antologico, sei in un momento in cui il tuo lavoro subirà un ulteriore cambiamento?
«Probabilmente sì, noto uno sviluppo costante del mio lavoro, che cambia di opera in opera, ma quello che faccio non viene minimamente afferrato e non perché come qualcuno afferma, sono misterioso, semplicemente non mi stanno appresso. Questo si nota quando qualcuno che dice di conoscere il mio lavoro poi lo vede per davvero e rimane senza parole, le stesse che riscontro in senso critico nei confronti del mio lavoro, il nulla. Questa mostra, dichiaratamente didascalica, mostra alcuni aspetti del mio lavoro che altrimenti non sarebbero mai stati visti, come semplicemente gli strumenti di scena e le foto delle performance dove questi sono stati utilizzati, ma anche il passaggio tra performance e video avvenuto nello stesso ambiente espositivo, completamente ribaltato e reso asettico. Mi sono accorto che il luogo dove è avvenuta la performance (fatta diversi giorni prima dell’opening) ha restituito parte di quella memoria emotiva durante la proiezione del video. Ma nonostante questo, chi ha avuto modo di assistere a entrambi gli eventi può certamente rendersi conto di cosa comporta essere parte della performance come spettatore e ritrovarsi semplicemente a vedere il video della stessa. Il coinvolgimento emotivo nella performance è completamente differente».
Perché scegliere di distinguere le performance dalle mostre? Che importanza hanno per te questi due momenti?
«Da pittore so cosa vuol dire mettere dei chiodi alla parete e appenderci su dei quadri e da performer so anche cosa significa tenere in piedi una struttura complessa come una performance, le tensioni sono completamente differenti e una volta che hai a che fare con uno stato adrenalinico alterato poi è difficile tornare indietro e fare finta di niente».
La scelta del luogo è spesso caratterizzante nella tua opera. Il 23 Novembre vedremo il tuo lavoro al Torrione Passari di Molfetta (Bari), un’antica torre del 1400 circondata dal mare, un avamposto per l’arte contemporanea, terra di pescatori e pirati, protetta dalla Madonna dei Martiri. Sembra che questa volta sia stato il posto ad aver scelto te! Su cosa focalizzerai la tua attenzione? Che valore ha il mare nella tua vita e nel tuo lavoro?
«Non è proprio così o almeno in parte… penso di essere sempre stato scelto, perché credo in un’armonia che si crea tra noi e il resto delle cose, e queste ci chiamano a sé per compiere un disegno molto più grande. Se uno è predisposto a cogliere i segni, tutto assume un aspetto più lineare e un percorso si focalizza davanti agli occhi senza essere mai stato cercato o viene in soccorso a confermare un sentore. Nel caso del Torrione Passari ho avuto una specie di sensazione simile a quella che avevo avuto a Palermo nella Cripta dei Cappuccini, l’aria salmastra che entra dalle finestrelle strette, il vento che soffia dal mare e asciuga e rinsecchisce le carni. Da questo pensiero il mio sguardo è caduto sul processo di mummificazione che ho adottato in diverse occasioni per ottenere da una razza di mare una figura diavolesca, un bafometto come meglio direbbe Klossowski. Lo spazio interno del Torrione sarà utilizzato per poter continuare l’opera di mummificazione di alcune razze precedentemente intagliate in modo da cambiarne l’aspetto, un luogo solenne dove la morte non è la fine di tutto, ma l’inizio di un nuovo processo».

Nasce a Taranto nel 1976, è critico d’arte e curatore indipendente. Laureata in Conservazione dei Beni Culturali presso l’Università del Salento, si è successivamente specializzata in comunicazione visiva e arte contemporanea a Roma e a Berlino dove ora vive. Ha collaborato con diverse testate del settore. Ha curato mostre in spazi privati e pubblici e pubblicato cataloghi di artisti. Collabora da diversi anni con il Centro d’Arte Contemporanea Torrione Passari.

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