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75 volte Whitney

di - 30 Luglio 2006

Per festeggiare i suoi 75 anni d’attività, il Whitney Museum of American Art ha organizzato Full house, una selezione storico-tematica della sua collezione, forte di più di 16.000 opere. Un’occasione per ripercorrere, assieme alla storia dell’istituzione, quella delle manifestazioni artistiche transatlantiche più influenti degli ultimi cinquant’anni.
La rassegna, ariosamente distribuita lungo i cinque piani del museo, è articolata attorno a grandi assi storici ordinati cronologicamente, con un prologo in forma di omaggio ad Alexander Calder e un epilogo in forma di retrospettiva su Edward Hopper. Del primo sono in mostra le figure in miniatura che animavano il circo Calder del ’26, la cui esperienza diretta ci è restituita da un video raro, esilarante e semi clandestino. Un circo che l’artista spagnolo chiudeva in una valigia e installava a Parigi come a New York, vero antecedente dei mobiles (le sculture appese al soffitto animate dal vento e dalla fantasia).
All’ultimo piano sono invece visibili per la prima volta, oltre ai giovanili autoritratti e ai lavori da illustratore, i laboriosi bozzetti di Hopper, prove di composizione dei dipinti. Per raggiungere quel grado di metafisica sospensione, l’artista sperimentava soprattutto diverse angolazioni dei fasci di luce. È il caso di New York Movie (1939), di cui vengono presentati più di cinquanta studi preparatori, ciascuno incentrato su ogni minimo dettaglio. Visibili anche i quaderni di sketch, aide mémoire in cui l’artista copiava a penna le opere vendute, con tanto di annotazioni della moglie su ognuna di queste. Interessante infine la produzione legata al viaggio a Parigi durante i primi del secolo, in cui Hopper, anziché interessarsi ai fermenti avanguardistici, aveva occhi solo per l’Impressionismo e per Degas. Del resto l’artista muore nel 1967, quando si è ormai compiuta la vicenda dell’arte americana raccontata ai piani inferiori del Whitney, chiuso in una splendida torre eburnea. Tuttavia, come ben rilevato dai curatori, Hopper ha incarnato un’anima del modernismo americano, come dimostrano tra l’altro due fotografi come Nan Goldin e William Eggleston.

I tre piani centrali del museo costruito da Marcel Breuer si aprono con gli Espressionisti Astratti (Content is a Glimpse) che resta, nella presentazione, il più classico della rassegna. Di ogni artista importante viene presentata un’unica opera significativa: un Pollock, un Rothko, un de Kooning, un Motherwell… Difficile seguire la curatrice, che consacra le due sale adiacenti a Louise Bougeois e a Paul McCarthy. Mancano, di quest’ultimo, gli impiastri al ketchup –performance che, secondo i critici, mirano a “de-sublimizzare la mascolinità”–, cui viene preferito un video del 1972, in cui l’artista traccia con la fronte una linea bianca che corre lungo tutto il pavimento.
Il piano seguente è incentrato sulla Pop art (The Pure Products of America Go Crazy) e su accostamenti non convenzionali, come Lichtenstein e Stuart Davis. Ad una scultura di Duane Hanson –una signora in tenuta da casa con in mano un fascio di lettere– fa eco una gamba tesa che spunta dal muro di Robert Gober; alle sculture di Oldenburg due inusuali figure sagomate in legno di Alex Katz; alle bandiere americane di Jasper Johns una foto di una bandiera al vento di Mappelthorpe, lontana dagli echi neoclassici dei suoi ritratti.
Sulla frase di Frank Stella What You See is What You See, punto archimedico per un’intera generazione, si apre il piano della Minimal art . I suoi protagonisti vengono accostati a quegli artisti che, nel primo dopoguerra, mostrarono un’attrazione per le forme geometriche e un interesse per l’industrializzazione del loro Paese, dipingendo fabbriche e ponti. Indovinato l’accostamento tra Anne Truitt (che Greenberg, contro Judd & C., sosteneva essere la prima artista minimalista) e Agnes Martin, entrambe recentemente scomparse. Una sala in cui s’intravede una via femminile all’hard edge minimalista, di cui le sculture di Eva Hesse restano il migliore antidoto. Quattro aspirapolvere sotto teche di plexiglas e sotto una luce fosforescente segnano la sorprendente presenza di Jeff Koons. Da ricordare infine i bellissimi e nerissimi Ad Reinhardt, di cui il museo ne possiede una trentina. Opere dalla stesura così uniforme che non sembrano toccati dal pennello né da alcun intervento umano. Da vicino tuttavia lasciano intravedere la loro struttura interna, fatta di nove quadrati, che nessuna riproduzione riuscirà mai a restituire.
In conclusione, Full house è un’ottima occasione per testare le categorie artistiche dell’arte americana emerse negli ultimi cinquant’anni, tutt’oggi operanti in quanto “cornici concettuali, ideologiche e stilistiche”, seguendone le filiazioni nonché le più snaturanti distorsioni. Evidente dunque l’intento dei curatori: giocare con le etichette e i movimenti, spiazzare lo spettatore con accostamenti inaspettati, per mostrare la “natura fluida del significato e della pratica artistica”.

riccardo venturi
mostra visitata il 20 luglio 2006


Full House. Views of the Whitney’s collection at 75, Whitney Museum of American Art, 945 Madison Avenue, New York, NY 10021, 29 giugno-3 settembre, www.whitney.org

[exibart]

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