Carta da parati, mattonelle, caminetti di legno. Sono alcuni dei reperti “archeologici” trovati da Mark Dion nel 2001, durante la campagna di scavi commissionatagli dal MoMA e iniziata coi lavori di rifacimento del museo.
La faraonica ristrutturazione del Museo d’Arte Moderna e Contemporanea più grande del mondo ha coinvolto un’area assai estesa, riportando alla luce i resti di alcuni edifici recentemente demoliti – l’Abby Aldrich Rockfeller Sculpture Garden e il Dorset Hotel – e della palazzina in stile vittoriano dove trascorse l’infanzia David Rockfeller (abbattuta nel 1938, anno di costruzione della prima sede del MoMA).
La sala antistante uno dei teatri del museo, al seminterrato, è la location scelta per la mostra dell’artista americano. Fotografie e svariati oggetti emersi dalle macerie sono diligentemente allineati sopra i caminetti di casa Rockfeller. Frammenti di stucchi e ceramiche, valvole dell’impianto di riscaldamento, lembi di tappezzeria, sezioni di un microfono, una miriade di chiavi e residui di ogni sorta, sono riposti con cura all’interno di una bacheca in alluminio, contenitore asettico per i preziosi cimeli. Parte del materiale, protetto da lastre di vetro, è archiviato dentro appositi cassetti estraibili.
Nella stanza di fianco Dion allestisce il suo laboratorio di analisi, con tanto di provette, arnesi per lo studio dei reperti, raccoglitori di ogni forma per la pulizia e la catalogazione del materiale. Oggetti futili, effimeri, destinati all’oblio poiché non rilevanti ai fini della conoscenza e della memoria storica ufficiale.
La seduzione del frammento inessenziale rivela un gusto maniacale e infantile per la conoscenza degli universi minimi, sepolti, silenziosi. In un intelligente mix tra rigore analitico e immaginazione, attitudine documentaristica e gusto per la suggestione poetica, Dion ribalta la concezione diffusa di “urgenza classificatoria” e “metodologia archivistica”, sconfinando in una dimensione giocosa, creativa, intimamente provocatoria.
L’artista, già avvezzo a realizzare progetti site specific all’interno di strutture museali, ha in passato compiuto altre operazioni analoghe. Con i suoi anomali scavi – rigorosamente articolati in tre fasi operative (lavoro sul campo, pulizia e catalogazione, esposizione) – Dion suggerisce una rilettura lirica-critica-ironica della cultura scientifica contemporanea. Insinuando, intanto, una serie di dubbi e “scomode” domande sui concetti, i criteri selettivi, i metodi di ricerca, le finalità e i principi che orientano la creazione di una collezione. Chi, in un museo, decide cosa esporre? Cosa è degno di essere studiato, conservato, protetto? Quale oggetto merita attenzione da parte del sistema scientifico e umanistico?
Allargando la questione all’intero campo epistemologico del sapere contemporaneo, Dion si sofferma sull’arbitrarietà che fonda ogni tipologia di collezione, considerata come un microsistema imperfetto che scaturisce da una visione soggettiva e parziale.
Il risultato è una mostra intelligente, divertente, ben allestita (dall’intimità nostalgica dell’ambiente domestico, fino al rigore del laboratorio pseudoscientifico).
Unica pecca, forse, la collocazione un po’ nascosta, che rischia di far passare la mostra come un evento marginale. Un difetto che è insieme pregio. L’atmosfera privata risulta decisamente più idonea ad un archivio da studioso, che alla tradizionale dimensione museale.
helga marsala e chiara tiberio
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