Nel 1926 Joan Miró scriveva: “Questo è il colore dei miei sogni”. Il colore era il blu, in quella sua speciale qualità cristallina, trasparente come gli occhi dello stesso artista, leggero come una brezza di mare, soffio delicato d’esistenza e insieme presenza immanente, calda e generosa. Il blu resterà una costante lungo tutta la produzione del pittore catalano e si ritrova infatti puntuale, saturo e pulsante di vita autonoma, nel grande trittico Blu (1961), da cui prende le mosse la piccola ma ben ordinata mostra che la Fondazione Miró dedica agli ultimi anni di attività dell’artista.
Sollecitato dalle esperienze dell’espressionismo astratto nordamericano, Miró scopre fra anni Cinquanta e Sessanta la seduzione del grande formato e con esso la possibilità di mettere lo spettatore dentro la pittura in un coinvolgimento emotivo sinestetico in cui forme e colori nello spazio assumono un’importanza capitale nella lettura dell’opera. Nel recupero di questa istanza d’avanguardia, ben chiara a Miró sin dalla sua pratica surrealista, il pittore affronta con rinnovato entusiasmo, e ancora con straordinaria densità immaginativa, l’impegno di una militanza sempre più dichiarata e attentissima a fare di ogni momento di tensione politica e sociale l’occasione di un riscatto poetico.
Quell’universo sidereo, di costellazioni e pianeti e figure affogate in un amnio senza tempo e senza storia, scende adesso per strada, si fa “strada” esso stesso –e basterà pensare ai molti interventi ambientali di Miró a Barcellona: dall’azione di pittura sulle vetrate della sede dell’ordine degli architetti nel 1969 al mosaico di Pla de l’Ós del 1976– e decide di affrontare con piglio “interventista” le più spinose e scottanti questioni del suo tempo. Si può parlare di un Miró politico, dunque, convinto più che mai del ruolo che può e deve giocare l’arte nella sensibilizzazione delle coscienze, nell’aprire un dibattito, nel sollecitare confronti, nel sostenere con coraggio un punto di vista.
Si passa così dal rigore cerebrale e quasi zen di un dipinto come Parole del poeta (1968), stringatissimo nella sua doppia cromia nera e rossa su fondo bianco, allo spazio convulso e fagocitante di Maggio 1968, in cui i segni della pittura si accampano rabbiosi e disperati sulla tela, insieme alle impronte delle mani dell’artista, alle colature di pennello, ai grumi di colore che esplodono in superficie come rigurgito della violenta repressione che caratterizzò quella stagione in tutta Europa. Al contrario, muto, e serrato tutto dentro un lirismo struggente e senza appello, è il trittico La speranza del condannato a morte (1974), sollecitato dalla barbara esecuzione capitale di Salvador Puig Antich, l’ultimo giustiziato del regime di Franco: esili macchie di colore circondate da una linea nera aperta ad una speranza di salvezza che per quel giovane poco più che ventenne non arrivò mai.
Tuttavia, accanto ai dipinti di più scoperta ispirazione politica, Miró rimarrà fedele ad una precisa sua cifra iconografica e di stile, laddove, pure nei modi più slabbrati e sempre più “informali” di una pittura talvolta stesa a terra e direttamente con le dita, le sue Donna e uccello, così gravide di implicazioni poetiche ed esistenziali, appaiono sempre pronte a spiccare il volo verso quel sole di totalizzante aspirazione alla bellezza del sogno.
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Mostra bellissima, come tutta la fondazione. Un Mirò insolito.