Da qualche anno alcune istituzioni parigine “macina-mostre”, quali la Bibliothèque Nationale e il Centre Pompidou, hanno lanciato una nuova tendenza: quella della retrospettiva su uno scrittore. Roland Barthes, Antonin Artaud, Jean Cocteau, René Char: si tratta, come evidente, di autori atipici, la cui produzione non può essere certo circoscritta alla sola scrittura, ma si gioca su diversi registri espressivi, incluso quello visivo. Per quanto il disegno, come ci hanno insegnato Henri Michaux e Cy Twombly, non è spesso altro che un’altra maniera di scrivere. Ultimo della lista è Samuel Beckett (Dublino, 1906 – Parigi 1989), di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, distintosi in Italia per la scarsità di manifestazioni.
Ora, il carattere sperimentale di tali rassegne dipende dal fatto che, senza tante parafrasi, c’è ben poco da vedere. Quale interesse suscitava nello spettatore la Citroën DS 19 che troneggiava all’ingresso della mostra di Barthes? In che modo arricchiva la lettura dei Miti d’oggi? Che conclusione trarre dalle pagine illeggibili e ingiallite di Artaud messe sotto teca? O da un martello che cade a pezzi che, si dice, gli sia appartenuto? Che cosa pensare del manuale di scacchi letto da Beckett –si tratta proprio della sua copia personale, come l’etichetta si affretta a specificare– aperto su una pagina a caso, tanto per ribadire il debito contratto da pièces come Quad?
Gli organizzatori di rassegne su autori che hanno affidato alla scrittura la trasmissione del loro pensiero affrontano insomma, a loro modo, la difficoltà di trovare qualcosa da mostrare che non abbia un carattere meramente aneddotico. Qualcosa che costituisca per lo spettatore un’immersione nell’universo –piuttosto che nel boudoir– dello scrittore, con le citazioni ad effetto sulle pareti mobili che gli invasati trascrivono sui loro quadernini.
In questo senso la mostra di Beckett è ben calibrata, con qualche eccezione, come gli oggetti di scena della prima rappresentazione di Oh les beaux jours, esposti come cimeli di una civiltà lontana. Preponderante
I curatori si sono inoltre sforzati di recuperare la registrazione video di decine di rappresentazioni storiche: qui la regia dello scrittore stesso, là la musica di Philip Glass e così via. Peccato che la mostra sia il luogo meno adatto per guardare tale materiale, sparso nel mezzo delle sale e visibile in loop su schermi al plasma più piccoli di quelli di un pc, con una cuffia e un cubo senza schienale su cui adagiarsi. Davanti a cinque rappresentazioni de L’Ultimo nastro di Krapp la scelta del visitatore è quasi obbligata: tirare avanti.
Ma piuttosto che sulle opere, la nostra attenzione cade sui manoscritti di Beckett, un’occasione preziosa in quanto conservati all’Università di Austin in Texas. Alla mostra tenuta nel 2000 alla Kunsthalle di Vienna sul rapporto con Bruce Nauman, i manoscritti erano aperti alle pagine in cui, negli interstizi della scrittura, comparivano schizzi, caricature e disegni geometrici. Come se dallo stesso tratto di penna fossero usciti una parola e un disegno. Nella rassegna parigina, quest’attività grafica è invece quasi scomparsa: si è preferito mostrare la calligrafia minuta e nervosa di Beckett, con le stanghette tese sulla destra.
Queste pagine sono, senza dubbio, le opere migliori della mostra. Lo sguardo è ipnotizzato dalla loro capacità di tenere la linea. Davanti alla decomposizione della lingua, della narrazione, del corpo dell’attore, davanti alla fuga del senso, l’unica cosa che ancora tiene è la scrittura. La sua orizzontalità come ultima certezza possibile, come traccia più stabile della voce flebile dello stesso Beckett che recita Lessness. Apertasi con i manoscritti, la mostra si chiude con il mormorio dell’autore: quanto v’è nel mezzo è presto dimenticato.
riccardo venturi
mostra visitata il 14 marzo 2007
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