Mask II (2001-2002). La perfezione dei tratti somatici è l’elemento che per primo colpisce lo spettatore. La grande testa è appoggiata su un lato, gli occhi chiusi, la bocca semiaperta e un’infinità di dettagli catturano lo sguardo per minuti interi. Le rughe intorno agli occhi, i pori della pelle, i peli nel naso e la barba incolta. Così per ognuna delle altre opere in mostra, sparse in giro per l’ampio spazio del museo newyorkese.
A cominciare da Dead Dad (1996-1997), una delle prime opere di Ron Mueck, che ritrae suo padre morto. Impressionante, reale ed irreale allo stesso tempo, in tutti i più peculiari dettagli del rigor mortis. Si prosegue con Crouching Boy In Mirror (1999-2002), un adolescente ranicchiato davanti ad uno specchio, intento a sbirciare timidamente la propria immagine. E poi Big Man (2000), un corpulento uomo che nascosto in un angolo di un ospedale psichiatrico, se ne sta intrappolato nella sua ansia; mentre Wild Man (2005) è un uomo barbuto e nudo seduto su uno sgabello, coperto di peli, con tutti i nervi tesi; il suo sguardo urla terrore come se avesse scoperto il mostro di se stesso. Baby (2000) è un neonato “appeso al muro”, o appena preso in braccio, costretto ad aprire gli occhi sulla realtà fino ad allora ovattata.
Tutte le sculture di Mueck sono perfettamente reali, tanto da immaginarle respirare. È stupefacente osservare questi corpi nella neutralità di un ambiente completamente “asettico” e percepire nello stesso tempo i loro pensieri, le loro paure, la loro inadeguatezza in ciò che li circonda. I loro occhi caricano di emozioni, le loro espressioni e chi osserva sente la volontà di indagare nelle loro vite.
A dare forza a questi lavori non è soltanto la magistrale riproduzione di dettagli, quanto il totale disorientamento creato dalle dimensioni. Mueck gioca su scale completamente irreali, minimizzando i corpi o esagerandoli enormemente. Malgrado non sia un processo inedito in campo scultoreo, Mueck, grazie anche alla perfezione stilistica, riesce a trasportare lo spettatore in un territorio nuovo, molto più vicino al mondo irrazionale, dove la percezione del corpo è legata più elle emozioni che non alla tridimensionalità reale. Tutti i suoi personaggi sono fissi nel vuoto e tutto intorno a loro prende forma solo grazie all’immaginazione. La vacuità nei loro occhi è analoga allo sguardo di chi osserva. Il vuoto diventa, quindi, metafora di un’analisi interiore. L’artista, utilizzando elementi fortemente comunicativi, coinvolge lo spettatore nella totale introspezione, spostando l’attenzione dall’oggetto al soggetto. Un universo fatto di silenzi e solitudine che ci trascina in un mondo parallelo. Il nostro.
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Ciao, sei anche tu a New york? Vivi qui? Io mi fermo ancora qualche giorno poi torno per un po' in Italia... scrivimi se ti va!