La vita di Anna Maria Ortese è la storia di un esilio culturale, iniziato nel 1953 alla pubblicazione de Il Mare non bagna Napoli. Un libro severo e disilluso nei confronti di quella cerchia di autori partenopei di cui anch’essa faceva parte e con i quali aveva intessuto legami intellettuali e di amicizia. A nulla questi servirono, se non a essere rigettata, con ancora più forza, lontana dalla sua città natale, l’amata Napoli, dalla quale rimarrà esclusa con il desiderio di rivederne le acque fino alla morte. Damasa, l’installazione ambientale che Gian Maria Tosatti presentò per la prima volta nella Galleria Lia Rumma tra il 2017 e il 2018, dopo aver scoperto la Ortese attraverso Il porto di Toledo, è stata acquisita per la collezione del Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli attraverso il PAC – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla DGCC – Direzione Generale Creatività Contemporanea del MIC – Ministero della Cultura. L’opera sarà esposta permanentemente dal 2 dicembre 2023 e assurge alla responsabilità di restituire una dimora all’anima errante dell’autrice napoletana. Un lavoro coerente con l’esperienza romana e napoletana di Tosatti che, a distanza di molti anni dai suoi primi complessi cicli di opere, Devozioni e Sette Stagioni dello Spirito, continua a seminare le sue considerazioni a Napoli
La stanza che occupa la Sala 82 della Reggia – in questi ultimi anni dedicata al format espositivo degli Incontri Sensibili – riproduce un locale domestico allestito in un singolo ambiente. C’è continuità fra i mucchi di cenere e di giornali dati al rogo che costeggiano il perimetro dello spazio, sviluppandosi verso il centro come penisole che non riescono a toccarsi, e le mattonelle ingrigite dal tempo che compongono il pavimento.
I pochi elementi d’arredamento presenti sono posizionati in prossimità delle sponde cineree, laddove si aprono come se volessero fagocitarli, contaminando lo spazio vitale dell’autrice con la cronaca di cui non restano che stralci carbonizzati. Spostando lo sguardo da destra verso sinistra, si trovano un letto austero e ricoperto da una lastra di onice purissima, una sedia che, nonostante la mancanza di un piede, si regge grazie a un inserto dello stesso minerale, e un tavolo, sul quale è poggiato un tocco di pane. L’alimento, indizio che un essere vivente si è nutrito, seppur di poco, in questo delicato luogo dell’anima – dove anche un respiro potrebbe smuovere le polveri prodotte dalla combustione – si è cristallizzato a sua volta in pietra bianca.
Infine, una finestra raccoglie al centro della visione tutto il significato dell’opera, delineando un’atmosfera che si può esprimere al massimo della sua opprimente stoicità solo se si ha la fortuna di naufragare nella sala 82 con le luci spente, il sole che illumina in maniera disomogenea la penombra della stanza e nessun’altro a parte noi.
L’infrastruttura dell’installazione ambientale di Tosatti ne ricorda un’altra, Elegia, visibile presso la stazione di Scampia. Anche in quest’opera sono presenti un letto e una sedia, questa volta completati da elementi in cera, disposti in un luogo dove il tempo ha sgretolato le pareti in infiniti petali di rosa. Nell’intervento pubblico del 2018 l’artista aveva dovuto affrontare la necessità di sottrarsi dal lavoro, esimersi dal trasformarlo nell’espressione di un contesto e un’identità premeditata, così da non renderlo estraneo e restituirlo alla collettività. Un’opera collocata fuori dagli spazi istituzionali, in un non-luogo transitorio inaspettatamente deputato all’arte da qualche anno, che non raccontava una visione poetica del quartiere, una sua possibile declinazione, ma si offriva ai passanti per non smettere di esistere.
Nel caso di Damasa, invece, è l’addizione di una curatela utile ed esemplare – quella del direttore del museo, Sylvain Bellenger, in collaborazione con Luciana Berti – a rendere possibile una condizione umana ancora più profonda rispetto alla prima volta in cui fu esposta. È il direttore, infatti, che ha suggerito la sala 82, con la sua grande finestra che affaccia su Napoli, sul porto e sul mare. Presso la Galleria Lia Rumma l’installazione era intima, confinata nelle quattro mura dello spazio espositivo, pudica, come la Ortese che tante volte si recò a Napoli senza avere il coraggio di scendere dal treno.
Al Museo Capodimonte, invece, può finalmente proiettarsi sulla città intera. La finestra e la vista che si può osservare attraverso essa riporta alla mente l’ultima opera delle Devozioni, ciclo romano che Tosatti concluse con Testamento nel 2011, nella quale, dall’alto della torre idrica dell’Ospedale San Camillo, si intravedeva rarefatta la città. La capitale appariva svuotata dell’umanità, ormai estinta, che fino a un indistinto momento prima la popolava – forse le 10:36, come l’ora segnata dalle lancette dei due orologi fermi all’entrata.
Damasa arriva in tempo, quando la città è ancora colma della sua vitalità, permettendo all’artista di compiere la sua volontà. «Con l’opera da Lia (Rumma) restituivamo la Ortese a Napoli. Oggi, con questa, restituiamo Napoli alla Ortese».
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