Dettagli, spazio, poesia: Massimo Bartolini al Pecci

di - 20 Settembre 2022

“Amo la musica fin da ragazzo, quando suonavo la batteria”, confessa Massimo Bartolini, protagonista della mostra antologica “Hagoromo”, che si è inaugurata al Centro Pecci di Prato il 15 settembre. Curata da Luca Cerizza e Elena Magini, già dal titolo denuncia il raffinato e rarefatto rigore che contraddistingue una scrittura espositiva equilibrata e armoniosa, dove si predilige il vuoto al pieno, attraverso un percorso multidirezionale, che permette di approcciare la ricerca di Massimo da quattro punti di vista diversi, come accade nel romanzo Rayuela (1963) di Julio Cortazar, che può essere letto in modi diversi, secondo l’esplicita volontà dello scrittore argentino. Hagoromo è una famosa pièce del teatro Noh giapponese, dove si narra la vicenda di un pescatore che trova l’hagoromo, il manto di piume della tennin, uno spirito femminile giapponese dalla leggendaria bellezza. La tennin chiede al pescatore di restituirle il manto, e lui risponde che lo farà solo se lei danzerà per lui: in questa favola si ritrovano alcuni elementi tipici del lavoro di Bartolini, come la sospensione, il desiderio ossessivo, l’attenzione ai dettagli, l’interpretazione dello spazio architettonico e la relazione con la poesia, la letteratura e soprattutto la musica, fil rouge dell’intera mostra.

Massimo Bartolini, Studio Matters +1, 2013, Installation view, The Fruitmarket Gallery, Edinburgh, Courtesy the artist and Massimo de Carlo Gallery, Milan, London

”Massimo ha avuto l’intuizione di costruire una struttura in tubi innocenti agganciata al sistema di illuminazione, che attraversa 7 delle 10 stanze del museo – spiega Luca Cerizza- e l’ ha trasformata in uno strumento dove i tubi diventano canne d’organo”. Ma non basta: l’artista ha invitato il musicista inglese Gavin Bryars a comporre un’opera polifonica, con una melodia diversa per ogni sala, per dare vita all’installazione In là (2022). Questa sorta di colonna sonora accompagna i visitatori nel percorrere gli spazi di questa mostra, segnati dalla progressione dell’opera Cera persa (2017-2022), composta da 60 candeline in bronzo, che segnano il trascorrere della vita dell’artista , che compirà 60 anni durante la durata dell’esposizione. Poche ma significative le opere a terra, tra le quali spiccano Basement (2011), una grande zolla di terra arata fusa in bronzo, ad indicare il rapporto forte di Bartolini con la terra ,intesa come elemento primigenio, e Conveyance (2003) una struttura circolare in acciaio che permette di osservare il movimento ritmico dell’acqua nella vasca interna.

Massimo Bartolini, Conveyance, 2003, Photo courtesy Tuscia Electa, Firenze. Ph S. Dominge

Alle pareti delle sale sfilano invece una serie di opere che segnano le diverse fasi della ricerca di Bartolini, come l’installazione Hum (2012), dove l’esecuzione delle Variazioni Goldberg di J.S.Bach da parte del pianista Glenn Gould si trasforma in un ambiente dalle pareti colorate a fasce monocrome ,dove il suono proviene da un giradischi appoggiato a terra. Di alto valore poetico le opere di piccole dimensioni riunite nella serie Studio Matters (1994-2022) che l’artista realizza nello studio con materiali diversi, “che rappresentano l’aspetto più ludico, personale e ironico della pratica artistica di Bartolini” spiega Cerizza. Tra queste troviamo Manca anima (2016), una scritta in neon rosso ripresa da un graffito disegnato sulle pareti delle celle nei sotterranei del palazzo Chiaramonte Steri a Palermo, che tra Sei e Settecento ospitarono il tribunale dell’Inquisizione, e My second homage: to Cristina Campo (2001), una scatola trasparente che contiene due orecchini di perle e alabastro, in omaggio alla scrittrice Cristina Campo, che elogiava nei suoi testi il valore della discrezione come disciplina di vita.

MassimoBartolini, Hagoromo, 2005, Performance Foto: Attilio Maranzano

E la potenza della mostra risiede proprio nell’aver evitato le opere muscolari per concentrarsi invece sulla creazione di un contesto intimo, quasi domestico, dove ogni opera è portatrice di un pensiero sul mondo, espresso attraverso sussurri e non grida, silenzi e non rumori, “La mostra di Bartolini fa parte della nuova identità del museo -spiega il neo direttore Stefano Collicelli Cagol- che presenterà ogni anno una mostra antologica di un artista italiano mid-career, per dare l’opportunità agli artisti di ripensare il proprio lavoro in rapporto agli spazi del Pecci”. La conclusione del percorso è affidata, non a caso, a Disegno di alberi (2008), un grande foglio di carta bianca piegato, dove Bartolini ha disegnato un albero in corrispondenza di ogni piega. Degno finale per una mostra da non perdere, capace di coniugare linguaggi diversi con consapevolezza e intensità.

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