Prosegue il nostro FOCUS curatori, 22 domande (le stesse per tutti) destinate a curatori e curatrici spesso “outsider”, per raccontare attraverso declinazioni personali, caratteristiche, metodologie e modalità proprie della professione curatoriale odierna. Un mestiere relativamente nuovo che, nel corso di qualche decennio, ha cambiato radicalmente forma. Una pratica dinamica, basata su studio, fonti d’ispirazione e conoscenze interdisciplinari. Un ruolo di “cura” e responsabilità nei confronti degli artisti e delle loro ricerche, del pubblico, di attenzione ai cambiamenti nella società, nel dibattito sociale, politico e culturale del momento. La nuova puntata della nostra rubrica ha per protagonista Stefano Rabolli Pansera.
Come ti definiresti?
«Architetto».
Dove sei nato e dove vivi?
«Sono nato in Italia e vivo in Thailandia».
Dove vorresti essere nato e dove vorresti vivere?
«Vorrei essere nato in Italia e vorrei vivere in Thailandia».
Quando hai capito che ti interessava l’arte?
«L’interesse per l’arte nasce dall’architettura e dalla possibilità di concettualizzare e modellare lo spazio attraverso le opere d’arte. In questo senso, l’arte mi interessa da quando seguivo nei cantieri mio padre che era architetto».
Quando hai deciso che avresti fatto il curatore?
«Non è stata una decisione, ma una progressiva presa di consapevolezza che, per praticare architettura oggi, è necessario operare al di fuori dei confini disciplinari dell’architettura. Praticare architettura oggi è una forma di resistenza all’atto di costruire. La pratica di curatela è per me un’autentica forma di architettura».
Quali sono i libri che ti accompagnano nel tuo percorso professionale da curatore?
«La regola e il modello di Françoise Choay, Architecture from the Outside di Elizabeth Grosz e The Art Museum of My Dreams or A Place for the Work and the Human Being di Rémy Zaugg».
Quali sono le fonti, gli autori e le opere extra-arti visive, di cui ti nutri nello svolgimento della tua attività scientifica?
«All’Architectural Association, il mio professore Pascal Schöning usava cinema e moving image come strumenti di ricerca architettonica. Il cinema e la video arte restano per me fondamentali per capire lo spazio. Prendo spunto anche dalla poesia di Wallace Stevens, Osip Mandel’štam e Paul Celan, capaci di costruire spazio con la parola».
Qual è la mostra che ti ha segnato e perché?
«For The Blind Man In The Dark Room Looking For The Black Cat That Isn’t There di Anthony Huberman, perché la linea curatoriale e la relazione fra le opere erano persino più intense e poetiche delle singole opere esposte».
Qual è l’opera d’arte che ti ha avviato nei sentieri della professione nelle arti visive?
«La mostra Hole di Christoph Büchel, curata da Adam Szymczyk nel 2005 alla Kunsthalle di Basilea. È stata un’epifania sullo spazio come luogo di possibilità latenti».
Quali artisti contemporanei che hai personalmente conosciuto sono stati importanti nell’avviamento della tua professione? E perché?
«Christoph Büchel, per la capacità di modellare la virtualità dello spazio; Michel Auder, per il racconto dell’esperienza urbana tra intimità e collettività; William Leavitt, per la costruzione di un’idea precisa di spazio attraverso la sola relazione tra oggetti».
Quali sono stati i tuoi maestri diretti e/o indiretti nella curatela?
«Adam Szymczyk, Jessica Morgan, Anthony Huberman, ciascuno per il rigore intellettuale, e Alberto Garutti, per la sintesi fra spazio, linguaggio e città».
Con quale progetto hai iniziato a definirti curatore?
«Non mi definisco ancora curatore, ma architetto».
Qual è la tua definizione di curatore?
«Un “profeta disarmato” che libera lo spazio per dare voce all’opera degli artisti, il curatore rende possibili e anticipa visioni senza imporle».
Qual è la tua giornata tipo?
«Faccio esercizio fisico e prendo lezioni di tailandese la mattina. Poi lavoro fino a tarda notte per rimanere connesso con Europa e America».
Hai dei riti particolari quando lavori?
«No».
C’è uno spazio per l’imprevisto nel tuo lavoro?
«La curatela significa liberare lo spazio, sgomberarlo per rendere possibile l’imprevisto e l’inespresso e cioè per dare voce alle visioni degli artisti».
Qual è il progetto, la mostra che hai curato che trovi più rappresentativa del tuo percorso scientifico?
«Bangkok Kunsthalle rappresenta compiutamente il mio approccio perché il programma curatoriale è progetto architettonico: mostra per mostra, piano per piano, l’intero edificio viene addomesticato e trasformato dalle opere d’arte. Per esempio, il lavoro concettuale di Nicolás Amato, che ha lucidato il corrimano in terrazzo delle scale esistenti, fonde completamente la nozione di opera d’arte con l’intervento architettonico».
A tuo avviso, qual è lo stato della critica d’arte in Italia?
«Non sono aggiornato sullo stato della critica d’arte in Italia, avendo lavorato quasi sempre all’estero. Mi è più familiare la critica architettonica, che trovo vivace a livello internazionale».
Quali sono i tuoi riferimenti critici?
«Elizabeth Grosz, Jacques Derrida, Chiara Vecchiarelli e il geografo Franco Farinelli, autori che mi aiutano a pensare lo spazio come evento e apparizione».
La mostra di un altro collega che avresti voluto curare?
«Conceptual Art, Arte Povera, Land Art curata da Germano Celant alla GAM di Torino. Una mostra che unisce avanguardie Europee e Americane in un’unica narrazione coerente sullo spazio e sulla materia».
Quale ritieni che sia il tuo più grande limite professionale?
«L’impazienza».
Progetti in corso e prossimi?
«Sto lavorando alle mostre Description Without Place con le sei cellule di Absalon, Mapping the Studio di Bruce Nauman e Dial-A-Poem di John Giorno con poeti e artisti thailandesi alla Bangkok Kunsthalle. Parallelamente, curo un’installazione di Delcy Morelos in Khao Yai Art Forest. Infine, sto preparando la prossima edizione del St. Moritz Art Film Festival di cui sono fondatore e direttore artistico».
Stefano Rabolli Pansera (Brescia, 1980) è architetto e direttore artistico, vive tra St. Moritz e Bangkok. Integra architettura e curatela, concependo il progetto espositivo come spazio critico e poetico. È stato curatore del Padiglione Angola, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 2013, e ha fondato la galleria a cielo aperto di Mangiabarche in Sardegna. È founding director di Khao Yai Art Forest e Bangkok Kunsthalle, dove mostre e installazioni trasformano edificio e foresta in luoghi di sperimentazione. Dirige il St. Moritz Art Film Festival, dedicato all’immagine in movimento come strumento spaziale. Concepisce la curatela come espressione architettonica.
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