Andy Warhol, “John Head Not Sleeping” / “Screen Test” (1963), 16mm film, black-and-white, silent, 3 minutes © The Andy Warhol Museum, Pittsburgh, PA, a museum of Carnegie Institute. All rights reserved. Film still courtesy The Andy Warhol Museum
Andy Warhol avrebbe desiderato essere una macchina, ovvero, l’arte non deve essere toccata da mano umana. Che sia, dunque, una cosa appartenente alla sfera della divinità? Sì, così come la vita, così aderente all’opera. «Voglio solo guardare», diceva Warhol, di cui in tanti ricordano la personalità fredda e uno spiccato egocentrismo che difficilmente sembra potersi conciliare con l’annullamento della soggettività così ricercato dal timido genio della Factory. La sua eredità – una delle tante – è la bellezza di questo nodo al momento senza soluzione: il dispositivo e l’individuo sono la stessa faccia di una doppia questione. Un problema di riflessi, come i volti che si riverberano sulla superficie della lente della macchina da presa di Warhol e da essa sono osservati, una 16mm voyeuristica ma che ama anche farsi vedere. Questo paradosso è al centro di Looking at Andy looking, mostra che ha appena aperto al Museum of Sex di New York e dedicata alle opere filmiche realizzate da Warhol nella prima metà degli anni ’60. 16 i pezzi in esposizione, di cui la metà mai presentati prima al pubblico. Organizzata in collaborazione con l’Andy Warhol Museum, la mostra esplora il ruolo di Warhol come creatore di immagini e il suo rapporto intimo con la macchina da presa, focalizzandosi in particolare su tre opere capitali: Sleep (1963), Blow Job (1964) e Couch (1964).
In Sleep, una delle prime sperimentazioni di Warhol con la pellicola, vediamo l’artista John Giorno, che all’epoca era l’amante di Warhol, dormire per 5 ore e 20 minuti, sfida le convenzioni narrative del cinema e ponendo lo spettatore in una condizione di ipnotico abbandono. Blow Job dura solo 35 minuti, nei quali compare il volto, in varie espressioni di estasi, di un giovane DeVeren Bookwalter, che in seguito sarebbe diventato attore e regista. Qui il desiderio diventa oggetto di contemplazione, un processo che ci interroga sulla natura voyeuristica del cinema stesso e sulla potenza del non visto. In Couch Warhol riprende figure maschili e femminili che fanno l’amore e si muovono su un divano e tutto intorno, mentre altre persone, più o meno indifferenti a quanto avviene alle proprie spalle, sono intenti a mangiare una banana o a maneggiare una motocicletta, dissolvendo il confine tra il pubblico e il privato.
L’arte è quello che succede, basta osservare fino alla fine, senza troppe sovrastrutture, tagliare al punto giusto e non andare troppo oltre o troppo prima. «La mia scelta di lasciare che le immagini si ripetano, o nel caso del film, si esauriscano, manifesta la mia convinzione che passiamo gran parte della nostra vita a vedere senza osservare», diceva l’imperscrutabile Warhol, che scelse di vivere in superficie e che riuscì a diventare una macchina pur rimanendo profondamente umano, lasciando esprimere la potenzialità onirica e suggestiva di tecniche come la serigrafia, la fotografia e, appunto, il cinema con i suoi soggetti del desiderio che si scambiano continuamente di posto con gli oggetti desideranti, davanti e dietro alla macchina da presa, da un lato all’altro dello schermo.
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