Categorie: arteatro

arteatro | Darsi o ritrarsi

di - 1 Giugno 2006

È finito il tempo per atteggiamenti monomaniaci, auscultazioni ossessive del corpo e dello spazio teatrale indagato per individuarne le diverse morfologie. Si pensa la scena piuttosto per ridefinire le condizioni dello sguardo. Il teatro come il luogo delle lacune, dei vuoti, di una relazione che sembra darsi in un altrove è stato forse il segno più evidente emerso dalla Biennale di Teatro di Venezia ideata da Romeo Castellucci. Liveness per richiedere destrezza percettiva e prontezza gestaltica. Spettacoli orientati verso la creazione di un impasto sonico-visivo spinto a interrogare direttamente il corpo dello spettatore.
Se continuano a proliferare da un lato, esplorazioni spaziali e corporee come azioni solitarie pervase da autoironia o da una compiaciuta distanza analitica, si sono fatti evidenti i segni del giro di boa compiuto dagli interpreti degli anni novanta che hanno agito sulla necessità di un atto di rifondazione dell’immagine per via di decoupage e citazionismo, hanno giocato sull’ambiguità tra corporeità come presenza fisica concreta e fantasmagoria elettrica, hanno costruito dispositivi autosufficienti e complesse macchine celibi in cui teatro, letteratura e trivial-letteratura, cinema -dal noir al b-movie- e videoarte tendevano a confondersi in un unico spazio di ricerca.
In un panorama complesso e diversificato viene da chiedersi, che posto occupi il nuovo lavoro del Teatro Valdoca. Alle scene concettuali e agli scenari di equivocità visiva dovuti all’intervento dinamico e immateriale delle proie zioni, la storica formazione di ricerca attiva dagli anni ’80, continua, infatti, a preferire una scena costruita dai corpi generosi e atletici degli attori sfigurati da spazzolate pittoriche che ne disorganizzano il corpo, che attraversano lo sfinimento per propiziare parole poetiche inneggianti all’amore alla ferita come condizione salutare, incise dai riverberi metallici dei microfoni. Ritroviamo le luci cerca-persona, le variazioni cromatiche contenute nelle sequenze del rosso-nero-bianco, gli strappi di musica rock e parole visionarie proferite con fatica, le controscene labiate dentro contrappunti ritmico-figurativi. Sintesi autocitazionista delle produzioni precedenti? Comodo rimescolamento di elementi collaudati? Si ha l’impressione di essere di fronte a un’ostinazione che non può essere liquidata dentro parabole creative discendenti dal sapore catalogatorio. Il nuovo affresco, Paesaggio con fratello rotto: Trilogia, conferma la necessità di una frontalità con lo spettatore che passa attraverso una formalizzazione estremamente sofisticata della scena e una complessa stratificazione simbolica e iconografica. Fedeltà alla propria, netta cifra stilistica è per il regista Cesare Ronconi e la poetessa Mariangela Gualtieri il modo per mettere in campo la radicalità di un segno stilistico che si esprime come ricercata sporcatura, che volutamente trasuda precarietà e frantumazione, che rischia arcadia retorica e anacronismo per scagliarsi contro detrattori e cantori apocalittici.

link correlati
www.teatrovaldoca.it

piersandra di matteo

*articolo già pubblicato su Exibart.onpaper n. 30 –
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