Se ci fidassimo delle etichette che tanto stimolano la fantasia onomastica della critica, dovremmo definire Mark Ravenhill (West Sussex 1966) un nuovo arrabbiato inglese, insieme al versante femminile di questa weltanschauung, Sarah Kane (1971-1999). La visione di Ravenhill, per quanto ne dica Franco Quadri, non è affatto pessimistica. A meno che fornire un quadro non eufemistico della società contemporanea significhi essere pessimista.
In Some Explicit Polaroids (1999) si narra di due terne di personaggi che s’intersecano in un plot complesso, senza tuttavia risultare mai macchinoso. In una sorta di specchio generazionale, la figura dell’ex operaio Nick, che ha scontato quindici anni di galera per un’azione violenta nei confronti del proprio padrone, è speculare a Victor, go-go boy russo che gode del trash frenetico londinese. Helen, ex-compagna di Nick, ora disillusa e impegnata nella politica istituzionale, ha come contraltare Nadia, lap-dancer svampitamente new age. Infine Jonathan, il magnate vittima di Nick e desideroso di vendetta, accanto al (presunto) cinico Tim, affetto da Aids e “padrone” di Victor.
La vicenda si dipana senza un attimo di tregua, assumendo talora i ritmi frenetici di un romanzo di Irvine Welsh o Lucía Etxebarría oppure del “supermarket” di Sven Påhlsson, tal altra sospendendosi in scene surreali e drammaticamente ironiche.
Se il plauso nei confronti degli attori va equamente suddiviso, sottolineando la preparazione dei più giovani come Marina Remi e Damir Todorovic, una nota a sé meritano le scene di Carlo Sala, un nome di grande rilievo – ha lavorato, per esempio, su testi di Dario Fo e Rainer Werner Fassbinder – e dotato di una magnifica visionarietà spaziale. In questa occasione, mediante un sistema di pareti a scorrimento, aree del palco che ruotano e settori modulari adattabili immediatamente all’esigenza scenica, il palco dell’Elfo si trasforma in salotto, bar, camera d’ospedale, ristorante ecc. In particolare, è notevole l’effetto ottico creato con una parete inclinata sulla quale è inchiodato l’arredamento di un salotto, con annesso un divano sul quale gli attori si siedono e si sdraiano, almeno nella prospettiva dello spettatore. Soluzioni assai intelligenti, funzionali e suggestive, che recuperano magistralmente la geniale lezione dell’Espressionismo tedesco, in specie le scenografie per Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, realizzate da Walter Reimann, Walter Röhrig e Hermann Warm nel 1920.
La chiusura dello spettacolo, con il celebre brano degli Area Luglio, agosto, settembre (nero) interpretato da Francesca Breschi, a un volume assordante, è il degno epilogo per uno spettacolo che non ha nulla di consolatorio, esautorando ogni semplicistica lettura della storia socio-politica dell’Europa del secondo dopoguerra.
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