Pochi ed essenziali elementi definiscono lo spazio d’azione de L’asino albino: un tappeto circolare, bianco, ne ritaglia il limite, ed al suo interno vari oggetti, disposti casualmente, individuano la gamma di personaggi tratteggiati nel corso dello spettacolo. Gli oggetti a terra – anche se per pochi istanti sono tutti destinati al consumo, a discapito di una funzione prettamente scenografica – identificano una serie di macchiette costruite per tinte sommarie sul ricordo di certi personaggi verdoniani, creando una corrispondenza diretta ed immediatamente leggibile.
Con questo espediente Andrea Cosentino marca i contorni di un gruppo di turisti in visita all’Asinara, passando velocemente da una caratterizzazione all’altra grazie ad una versatile mimica facciale. Spunto della rappresentazione il rapporto tra la storia dell’isola ed il suo presente, e come questo sia vissuto, oggi, dopo la trasformazione in area protetta. Il luogo dell’ambientazione è scelto dunque in virtù di una profonda connotazione: stazione sanitaria marittima di quarantena prima, campo di concentramento durante la Grande Guerra, supercarcere di massima sicurezza negli anni della lotta al terrorismo.
Ma Cosentino non vuole raccontare la storia dell’isola e della gita che la percorre servendosi di una struttura narrativa lineare; egli procede piuttosto per voli pindarici ed incastri. È un narratore istrionico che mette volutamente in scena il tentativo di trasmettere una storia, senza tuttavia riuscire nell’impresa, se non nel finale o meglio, nei finali. Attraverso una costruzione abbastanza articolata, l’attore-autore guarda al passato evitando di presentarsi come testimone diretto, ruolo che peraltro non gli appartiene.
Casomai, lo attraversa trasversalmente, fornendo spunti di riflessione sul presente. Senza raccogliere i segni della storia per tramandarli, Cosentino focalizza l’attenzione sul degrado della memoria, allontanando la volontà o il pretesto di supplirle, e creando allo stesso tempo l’occasione per avvicinare spunti comici a spunti più riflessivi. Collante tra le varie direzioni è l’asino albino, figura continuamente evocata che alla fine si concede come una visione, l’animale incarnato però dal corpo dell’attore, vestito completamente di bianco. Cosentino mostra l’asino e lo nega allo stesso tempo, lo lascia in ombra, le spalle contro una luce abbagliante. E così -dopo aver più volte tirato in ballo la favola di Pinocchio nella macchietta della madre e della bambina identificate da Winnie The Pooh– l’attore saluta con un’immagine poetica che richiama il paese dei Balocchi, la scenografia scarna ed essenziale rimasta vuota, ad evocare una pista circense. Ripulita la scena dagli oggetti a terra, dopo l’ultimo saluto dei personaggi -i cui elementi identificativi vengono riposti uno ad uno in una scatola cilindrica, rigorosamente bianca- rimane soltanto la sagoma di un uomo, in piedi sopra la scatola, ritagliato dal controluce, le mani a simulare le orecchie dell’animale, ed un raglio doloroso. L’asino albino, appunto.
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I personaggi di Cosentino ne L'asino albino sono a mio avviso tutt'altro che macchiette e men che meno ispirate a Verdone (ma dove?).La tematica è poi prevalentemente politica (+ che ambientale) innestandosi su una considerazione filosofica sul tempo e sulle nostre incomunicabilità quotidiane di cui i personaggi-turisti rappresentati in chiave surreale antirealista sono simbolo; nell'isola-carcere (un cerchio dentro un cerchio) c'è un tempo subìto ma anche un progetto di evasione, a differenza del carcere esistenziale autoindotto dei turisti. Lo spettacolo come è chiaro parla di tragiche "mutazioni antropologiche", quelle che portano all'estinzione non dell'asino albino ma della nostra stessa umanità. Dalla lettura del suo articolo mancano secondo il mio modesto parere alcune osservazioni sostanziali per restituire la forza di questo "monologo a più voci" che è davvero una delle felici novità presentate in questi molto noiosi e ripetitivi festival estivi. Buona giornata.
Anna Maria Monteverdi