Guy Debord parlava di Società dello Spettacolo, come è noto, già nel 1967. Il gruppo perugino Macchina Modulare, con La Società dello Spettacolo, fin dal titolo dichiara il proprio tributo alla celeberrima opera, seguita due decenni dopo dai non meno puntuali Commentarii. Non dunque di prestiti, influenze o derivazioni occorre parlare, ma della fedele trasposizione performativa di un testo filosofico.
A piccoli gruppi, veniamo condotti in una stanza costruita con tramezzi di tendaggi neri. Ad accoglierci, una decina di sedie dotate di cuffie e uno schermo piatto applicato su una parete: Macchina Modulare ci dispone passivi a contemplare immagini su schermo, in letterale consonanza con gli strumenti dello spettacolare integrato descritto da Debord. Immaginiamo che anche gli altri spettatori si sistemino in spazi analoghi. Un uomo in canottiera grasso e sudato annota un indirizzo su un foglietto, e lo confronta con una fotografia di una ragazza bionda, che ritroveremo all’interno della nostra stanza contornata da altri loschi figuri: una telecamera a mano ne segue le azioni rimandandole sugli schermi, in modo che tutti gli spettatori possano seguire. Probabilmente una ragazza è finita nel mirino di un qualche magnaccia. Probabilmente altri protettori si oppongono.
Il video, intercalato da azioni live che invadono i luoghi del pubblico, ci descrive una vicenda pulp dai contorni volutamente indefiniti. Probabilmente tutti finiscono morti ammazzati, stando su una delle situazioni in cui tutti si puntano ripetutamente la pistola alle tempie. A fungere da controcanto al flusso visivo si ascolta in cuffia un tracciato audio bifronte: le parole di Debord, pronunciate con accento francese e traslate in video tramite frasi bianche su sfondo nero, e una miriade di stimoli dal sapore Blobbiano nei quali finisce dentro di tutto, dalla parlata di Marcello Mastroianni ai pacchi di Pupo, da Lou Reed a Giuliano Ferrara che difende Berlusconi. Ma non solo.
Una preghiera, dunque. Non già una critica, difficile oggi ancor più che in passato data l’inappellabile estinzione di interlocutori disposti a raccoglierla. Una definitiva vittoria dello spettacolo era stata segnalata da Debord fin dal primo libro: chi si oppone deve scendere sul suo stesso piano, adottarne la sintassi, rifare il suo linguaggio. Macchina Modulare lo sa, e immerge i suoi spettatori dentro tale ricreazione. Ma tenta anche, in modo non troppo sotterraneo, di produrre piccole deviazioni, inciampi nel flusso, scarti sul pensiero unico. Qui il punto debole, per chi scrive. Come detto, il video viene prodotto in diretta, smascherandone la finzione ma non l’illusione, dal momento che l’immagine continua a esercitare la propria attrazione. Il rischio che il lavoro non riesce a evitare del tutto è un certo compiacimento, una sorta di sottomissione al lucido magnetismo delle icone dei nostri tempi, che tende a far perdere di vista il disegno di fondo. Un esempio di quanto stiamo sostenendo lo troviamo nel finale, ammiccante senza mezzi termini: la fisarmonica di Ferretti accompagna il sollevamento delle pareti-tendaggi, coup de théâtre piuttosto prevedibile che decostruisce le cinque “cellette” nelle quale eravamo rinchiusi, ora non più attori e spettatori ma mero raggruppamento di uomini e donne nello stesso capannone industriale.
Si impongono, a questo punto, una serie di interrogativi. Basta tale svelamento affinché chi assiste possa prendere coscienza di qualcosa? Se l’opera si dirige a una massa di spettatori anestetizzati, come siamo tutti seguendo Debord, non ci staremo reciprocamente rassicurando, elevandoci a microbica elite pseudo-illuminata, mentre il mondo fuori continua indifferente? In che posizione dobbiamo situare questa Società dello Spettacolo rispetto alla deriva ormai post-spettacolare e ultra-comunicazionale? Si tratta di critica, di fotografia di paesaggio o piuttosto di oleografia rassicurante?
Nell’impossibilità per chi scrive di desumere direttamente dall’opera una presa di posizione chiara, origine dei dubbi qui sollevati, giriamo direttamente tali questioni a C. L. Grugher, regista-creatore del lavoro. Perplessità e domande da prendere primariamente come richieste di chiarificazione. Probabilmente eterne dispute che contornano tutta l’arte di contenuto politico, difficilmente risolvibili in maniera definitiva. E che (forse), esulano dall’analisi di un lavoro tecnicamente impeccabile, acuto e rigoroso. In ogni caso figlio -dalle molte potenzialità- del disorientamento dei nostri tempi.
lorenzo donati
spettacolo visto il 10 giugno 2006
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