Categorie: arteatro

PERFORMANCE

di - 4 Ottobre 2018
Nessuna luce, se non quella naturale dell’opera che brucia. Nessun suono, se non quello della catena che fende l’aria. Nessun costume, gli abiti sono gli stessi indossati da noi quando siamo arrivati e gli stessi che avevamo addosso quando siamo usciti. Saranno un centinaio di chili di vetro, crani e cera che pendono dal soffitto. Tutto gocciola, noi e l’opera che si consuma e si crea.
Non usiamo il corpo come uno strumento astratto che crei forme di fronte ad un’opera intoccabile, facciamo in modo che il nostro corpo si relazioni ad un oggetto quasi sacro, lo corrompiamo e lo maneggiamo con attenta fermezza. La concentrazione nei giorni che precedono la performance la troviamo allestendo con lentezza rituale il nostro oggetto transizionale, lo curiamo e lasciamo che si crei intimità, che i suoi punti di rottura si svelino per essere evitati.
Il pendolo, uscito dalle bocche dei forni di Berengo Studio, oscilla, il suo moto è accompagnato da uno scandire di numeri che vanno dal 2018 al 1903, la data prima della quale nessuno è ormai rimasto più in vita. È il contatto della materia uomo con il tempo, la linea che collega l’inizio alla fine in un krónos occidentale lineare, che poi non è nemmeno tale. L’oscillazione del vetro parte longitudinale per poi corrompere sempre leggermente il suo moto, che va a disegnare dei piccoli cerchi sul suolo. Il forse del pendolo in radioestesia, la pratica che consiste nel tentare di localizzare oggetti nascosti o informazioni sconosciute.
Il nostro è un rituale secco, a cui gli spettatori assistono sentendo risposte ma non porgendo domande. L’azione performativa ha a che fare con l’hic et nunc del suo svolgersi, si crea una tensione, una sospensione, un superamento.
Si finisce il conteggio, si arriva alla data prima della quale non ci sono testimoni. Il tempo è finito, scaduto. Il pendolo quasi a riposo, ma non del tutto, quando finisce veramente il moto?
Noi usciamo, bagnati, scalzi, abbandoniamo come si abbandona il tempo nell’andare via. È definitivo, chi rimane commenta, chi va è già altrove. Non c’è consolazione, non c’è possibilità di contatto. Il tempo, se lineare, è finito.
Arrivare a questa rottura del tempo non è cosa facile. È il giorno prima dell’inaugurazione, l’azione viene discussa con la gallerista per ore. La massimodeluca è abituata alla performance, Marina Bastianello è attenta e pronta a difendere i confini dello spazio d’azione. Scuote il concetto per testarne la tenuta. In parte la performance è decisa, anche se mai provata: saranno il luogo, il caso, la gente a tracciarne gli argini.
Voler performare non significa solo mostrare ad un pubblico il proprio corpo in azione, significa piuttosto voler ricreare le condizioni perché noi stessi possiamo trovare quello stato di osservazione del mondo in cui si rovescia il punto di vista. Uno sguardo mediato dal fuoco, uno sguardo incastonato sul collo dietro ai capelli.
Si tratta di costruire una condizione psicologica, di caricare la molla fino al punto di sblocco. Tutto poggia su dei pilastri invisibili, virgole e punti di un discorso che si crea nel suo farsi, slabbrature dove chi guarda possa mettere le sue domande e le sue risposte, un modo per trattare l’inesplicabile che verrebbe corrotto dal logos.
Stiamo aprendo un sentiero in un luogo impervio, abbiamo deciso di scegliere il vetro, abbiamo deciso di rimanere noi stessi. E noi siamo moltitudini, attraversati da flussi, idee, visioni esoteriche, informazioni scientifiche, vissuti, relazioni, squarci mondani che creano la nostra memoria, una memoria che fertilizza il terreno di ciò che verrà. I nostri lavori si collocano all’interno di questo microcosmo personale, in cui l’oggetto che nasce è tanto opera quando presupposto dell’azione, il gesto produce residui che diventano simboli, la compromissione di noi nella relazione va a modificare il circostante.
Trattenere fino a quando schiena e muscoli lo consentono, lasciare andare, attendere, andarsene.
Penzo+Fiore, Time, Galleria massimodeluca – Mestre, fino al 16 settembre
Photo credits: courtesy galleria massimodeluca e Berengo studio. Fotografia: opfot.com

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