Categorie: arteatro

PERFORMANCE

di - 22 Aprile 2019
Marcelo Evelin, coreografo e ricercatore brasiliano, a Bologna è stato un evento che ha turbato, coinvolto, irritato le persone che hanno partecipato alla serata clou del Festival Live Arts Week VIII. E quindi ha colpito nel segno della sonnecchiante città emiliana. Prima della performance è venuto a trovarci in Accademia e ci ha raccontato la sua storia elettrizzando gli studenti. Ha iniziato dalla povertà e dall’arretratezza di Teresina, la città dove è nato e dove è stato chiamato nel 2006, dopo molti anni passati in Europa, a dirigere un teatro, laddove ha creato una piattaforma di lavoro sperimentale con diversi artisti. Dopo tre anni il governo non ha più voluto che continuasse a leggere Deleuze con la gente dei quartieri marginali, doveva fare danze folcloriche. Ora continua autonomamente e autofinanziato a Teresina con il suo gruppo Demolition Incorporada, fondato a New York nel 1995. E fa con rigore e pervicacia ciò che il nome stesso (un ibrido tra l’inglese e il portoghese) indica: una costante demolizione dell’edificio-costruzione di un sistema dominante, prestabilito e fortemente gerarchico di norme e relazioni utilizzando come dispositivo il CORPO, nella sua complessa sensibilità, fatta di emozioni, pensieri, fragilità, paure, poteri, sesso. Per questo decentra il punto di vista e privilegia le minoranze attraverso una meravigliosa disposizione all’ascolto: le donne e il pensiero della negritudine, con una serie di riferimenti teorici che, partendo dal capofila del movimento terzomondista e postcoloniale Frantz Fanon, culminano nel pensiero di Achille Mbembe e forniscono una possibilità nuova di strutturazione della produzione e della drammaturgia della coreografia. Il corpo quindi come dispositivo, seguendo Agamben, è visto nel suo coacervo indissolubile di materia pensante e senziente, con una centralità della sensibilità direbbe Mbembe, che recupera il suo strato profondo e sovvertitore, il potere dell’erotismo nel senso di Georges Bataille. Lo spazio della scena è sovvertito, vi è una fusione e processualità di azioni e corpi che si mescolano con gli spettatori, li sfiorano, li turbano, li provocano, almeno a partire da Matadouro del 2010 (ultimo spettacolo della trilogia tratta dall’analisi degli scritti di Euclides da Cunha sulla guerra civile brasiliana).
Marcelo Evelin, A Invencao da Maldade, ph. by Maurício Pokemon
La drammaturgia della mescolanza e dell’indistinto perturbante si approfondisce con il successivo De repente tudo fica preto de gente (2012), basato sul testo Crowds and Power di Elias Canetti. La partecipazione diventa corale con la presenza di 50 performer, professionali e non, europei e africani, provenienti da 14 paesi diversi in Batucada (2014), che creano un flusso ibrido e gioioso che si innesta nella folla degli astanti, con un riferimento preciso alle barche dei migranti e alla necessità di una rinegoziazione delle relazioni socio-culturali dei popoli. Infine Dança Doente (2017) fa riferimento al corpo fragile, dolente, malato, concettualizzato dal fondatore del Butö Tatsumi Hijikata, che Evelin ha studiato per anni in Giappone, ripercorrendone il pensiero e imbevendo se stesso della biografia di Tatsumi fino all’immedesimazione. E’ un corpo sovvertitore che esalta la diversità e la debolezza in opposizione al corpo performante e perfetto dell’immagine egemonica odierna, è un corpo nudo, senza la difesa della maschera identitaria dell’abito. E’ un corpo che trasgredisce all’uniformità contemporanea nella sua alterità, primitività, materialità, desiderio e quindi rappresenta il “male”, che è la sorgiva necessità della libertà e liberazione del corpo, della creatività assoluta. Tutto questo è stato The Invention of Evilness/A Invençao da Maldade che abbiamo visto in prima italiana a Live Arts Week VIII pochi giorni fa. Ci siamo trovati immersi nell’ampio spazio oscuro e spoglio del sotterraneo Cinema Modernissimo, accarezzati dai suoni lievi di un vento evocatore di spiriti, sollecitati da un’atmosfera sempre più coinvolgente, nell’essenzialità della sua struttura drammaturgica: pochi falò di ancestrale memoria, 7 corpi nudi, musica incalzante. Nelle parole di Evelin “è un pezzo violento e di forte necessità. Più che vedere si tratta di un’esperienza”. Cosa è stato e cosa è raccogliersi attorno ad un fuoco, la storia dell’addomesticamento dell’uomo, la necessità di una presa di coscienza e di una resistenza, attraverso visioni altre che si mescolano nella loro ricchezza e nelle fonti più disparate, fino al candomblé brasiliano, una sapienza antica, un approccio diverso al mondo.
Carmen Lorenzetti

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