Omar Gabriel, Nine Night, photo credits Alessandro Sala, CESURA LAB, courtesy Centrale Fies
Inaddomesticabili sono i terreni su cui poggia la Centrale simbolo della sperimentazione dei linguaggi performativi in Italia, un centro nevralgico che sposta continuamente i saperi e le forme con cui vengono veicolati, interrogandosi su linguaggi, dispositivi e formati, ponendo in discussione i vincoli tradizionali che caratterizzano la produzione culturale delle arti dal vivo.
Centrale Fies scompagina e ogni volta trasforma il suo assetto: appare di volta in volta come un campo, un edificio, una fortezza, un campeggio, uno spazio assembleare, una scuola, una pratica di assembramento, un rivolo di un veleno insorgente, uno spazio umido e acquatico, un giardino. In questo assetto metamorfico e solo apparentemente sempre uguale, si rivela come una creatura chimerica, a più teste e più corpi, pronta a incidere se stessa e il territorio su cui insiste con domande che si tatuano e si sovrappongono sulla pelle delle sue programmazioni.
Un palinsesto che nel tempo si stratifica e lascia tracce in chi li attraversa. Nel 2025 inscrive il suo primo segno con Undomesticated Ground (18 luglio – 20 settembre), la mostra, a cura di Simone Frangi e Barbara Boninsegna, inaugurata nella settimana di Live Works Summit (18-20 luglio), progetto curato dagli stessi che da anni opera, anche con la collaborazione di Mackda Ghebremariam Tesfaù e Justin Randolph Thompson per il premio Agitu Ideo Gudeta Fellowship. Un omaggio, oramai pluriennale a Stacy Alaimo, teorica del neomaterialismo femminista, che ci conduce “allo scoperto” nei mondi e nelle prospettive della transcorporeità. Terzo episodio di una trilogia iniziata con Naked Word (parola nuda), riferita al corpo in protesta e in solidarietà con altri agenti non umani, e poi con Material Self, Undomesticated Ground si ispira all’omonimo saggio della scrittrice che guarda all’idea di natura, nel contesto dei saperi della modernità occidentale, come costrutto teorico e oggetto separato, asservito, disciplinato, spesso romantizzato, sempre colonizzato – e quindi condannato – da una violenza epistemica antropocentrica, che impone tassonomie e regola differenze e gerarchie, di classe, di genere, e razziali. La decostruzione cui invita Alaimo, e con lei la visione curatoriale, è un invito ad abitare gli spazi tra i corpi, a sintonizzarci negli orizzonti selvatici, infestati, perturbati e ancora non definiti della relazione tra umano e più-che-umano.
Le artiste e gli artisti presenti Marcos Kueh, Elizabeth A. Povinelli, Théophile Peris, Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi, Adam Christensen con Tom Wheatley e David Aird, ne mostrano i volti, guardando alla tele che si estendono tra corpi e territori, e agli agenti inquieti che attraversano e bucano i confini. Troviamo velli ovini (Théophile Peris), numi post-umani (Marcos Kueh), vele, città immaginifiche, dolorose distanze, e con esse le forme, le voci e le parole intime che permettono di superarle (Giulia Crispiani e Golrokh Nafisi), territori spossessati, e insieme la ricerca costante di trovare una forma possibile del pensare l’appartenenza senza possesso (Elizabeth Povinelli), unbelonging. Tra le performance presentate nei giorni di inaugurazione di Live Works, trovano grande spazio le voci, i canti, formule ibride tra performance e concerto, ad aprire un terreno, anche qui inaddomesticato, della performatività, dove il suono e la sua capacità di attraversamento vibrazionale delle materie si rivela come medium capaci di valicare e interrogare ere, geologiche e storiche, e mondi.
Tra questi, le sonorità queer e trans della voce di Géral Arev Kurdian aka Hot Bodies, che indaga le forme in cui la transizione di genere, da maschile a femminile, hanno informato il suo modo di cantare e di suonare. Una metamorfosi che evoca storie e divinazioni arcaiche e post- internet, in un concerto tra danza, fictional storytelling, cori di cloni vocali, travestitismi, informato dall’utilizzo di processori vocali e tecnologie digitali come il morphing sonoro.
Nel lavoro In Yesterday’s Forecasts, Tewa Barnosa, con la collaborazione dell’artista Ghenwa Noiré, mostra una ferita aperta e invita ancora una volta a osservare, nonostante il sonno della storia che caratterizza il nostro paese, gli esiti feroci del colonialismo italiano in Libia. Un processo di storytelling, nutrito da un’accurata ricerca documentale, riporta alla luce la storia del silfio, la prima pianta di cui si registra e documenta l’estinzione, causata dal processo di sovrasfruttamento delle terre dovuto all’espansione delle colonie greche e romana. L’arbusto diviene simbolo del regime fascista nel 1911, anno dell’occupazione libica. Intorno alla sua memoria l’artista annoda una macchia indelebile della storia, attraverso un racconto che intesse archivi veri e finzionali, memorie, lacerazioni. A questi si unisce la voce di Ghenwa Noiré, artista libanese che riporta la storia orale del Mediterraneo sud-orientale in una vocalità intrisa di dolore, smarrimento, rabbia e impotenza, lì dove la potenza del canto sembra invece crepare il silenzio e attivare un primo riparo alla devastazione.
Sulle note e sul sottile campo vibrazionale del suono si colloca anche Nine Nights, lavoro della vincitrice dell’Agitu Ideo Gudeta Fellowship – quest’anno in collaborazione con Palazzo Grassi–Pinault Collection Venezia e Fondazione Sandretto Re Rebaudengo – Omar Gabriel, pianista, artista, musicista, capoerista, che percorre un cammino nell’ancestralità e nella transcorporeità queer. Nelle onde e nei solchi della musica, dal Brasile alla Giamaica, passando per l’Europa, attraversa la sua storia personale, recuperando le rotte dell’Atlantico nero.
Il dolore del razzismo strutturale, come già in Julius Eastman, scorre nelle note di un minimalismo musicale che si intreccia con la corporeità di un altro strumento che trova assonanze inedite con il pianoforte, entrambi a percussione e a corda, il berimbao. Omar racconta il suo passaggio tra acque e memorie, e le sue rotte, dando le spalle al pubblico per un lungo tempo, suonando il piano preparato, nell’ombra di un silenziamento – subìto nel suo percorso artistico-accademico – e qui ri-agito, rivendicato e trasformato. Usa i piedi, i tacchi, gli arti, gioca con gli strumenti connettendoli, danzandoci attraverso, performandoli, con la delicatezza e la sensualità di un’ombra accesa dal glitter.
Il suo lavoro chiude la tre giorni di Live Works dissolvendo il tempo, la cronologia, lasciandoci sospesi nella percezione di una dimensione che non può più tenere conto delle categorie di passato, presente e futuro. Siamo avvolti in un tempo a spirale, che spira, e insieme respira, e ci trascina in un ascolto profondo, portando con sé echi da ogni dove.
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