Per Barclay, Abisso, Teatro di Corte, Reggia di Caserta, veduta dell'installazione, 2025, ph. Marco Ferraro
C’è stato un tempo, non così remoto nel calendario ma distante ere geologiche nell’immaginario collettivo, in cui si ripeteva che «Con la cultura non si mangia». Una battuta resa celebre da Giulio Tremonti e, prima ancora, riflesso profondo di un Paese ancorato su un’idea tardoindustriale di produttività, in difficoltà nel leggere le trasformazioni già in atto. A quella mentalità voleva rispondere, con energia opposta, Dario Franceschini, che trasformò la boutade in una domanda retorica: Con la cultura non si mangia? era il titolo di un suo libro e l’orizzonte politico verso cui avrebbe puntato il suo mandato al Ministero dei Beni Culturali e del Turismo, come da denominazione dell’epoca. La Riforma ricordata con il suo nome, per molti versi storica, introdusse l’autonomia gestionale, amministrativa e finanziaria dei musei statali più importanti – quelli più grandi e visitati -, inscrivendo la cultura nell’economia reale, sulla scia di ospedali trasformati in aziende sanitarie e scuole affidate a dirigenti con responsabilità gestionali.
Poi, come capita quando ci si entusiasma, si passò dall’inedia al surplus, recuperando alla contemporaneità un motto di stampo vagamente Reaganiano: «La cultura è il petrolio d’Italia». Un’espressione iperbolica e figlia della stessa matrice, l’idea che la cultura possa funzionare se tradotta in una metafora produttiva. Ma dal pane al petrolio si attua un cambiamento sostanziale: se il pane è materia di mercato, il petrolio è anche il fluido che fa scorrere meglio le cose, introducendo dunque una nuova sfumatura di senso. Si continuava a leggere il valore culturale in termini di ricadute concretamente misurabili ma, dall’oggetto da vendere e comprare, si scivolava alla relazione tra gli oggetti culturali, quindi anche alla narrazione – che è la distanza minima tra due oggetti – spesso declinata in un branding territoriale riferito al turismo, che era uno dei punti di forza del dicastero franceschiniano, allora identificato, appunto, come MIBACT – Ministero dei Beni Culturali e del Turismo.
E oggi è esattamente quella grammatica a essere stata sviluppata, su una strada di continuità e di adattamento, più che di cesura e di reazione. Siamo consapevoli di vivere nell’epoca della smaterializzazione avanzata, in cui il potere non si misura nei beni ma nelle connessioni, nelle reti e nella capacità di tenuta dell’impalcatura della reputazione. Ed è qui che la cultura assume la sua fisionomia attuale: quella di strumento privilegiato del Soft Power.
Il termine Soft Power non è nuovo, fu coniato nel 1990 da Joseph Nye per individuare la capacità di un Paese di ottenere consenso non con la forza ma con il fascino, l’autorità morale, la diffusione della cultura. L’esempio classico restano gli Stati Uniti, che hanno sganciato due bombe atomiche e dispiegato una infrastruttura militare enorme ai quattro angoli della Terra “ma”, allo stesso tempo, hanno diffuso la Beat Generation, il Rock & Roll e Pop Art.
Non è dunque un concetto inedito ma lo è il suo svelamento come “best practice” tramite l’impiego sistematico nel linguaggio politico italiano ufficiale. Negli ultimi mesi il Ministero della Cultura ha adottato il termine con zelo crescente, inserendolo in comunicati, circolari, discorsi pubblici. Una scelta che sposta l’intero settore in un registro identitario, come proiezione – e anche protezione, difesa e contrattacco – strategica. L’ultima dichiarazione in ordine di tempo – inviata tramite newsletter dall’Ufficio Stampa del MIC il 21 ottobre e cancellata a seguito delle dimissioni del portavoce del Ministro, Piero Tatafiore – arriva dal ministro Alessandro Giuli, in conferenza stampa a Napoli, al fianco di Edmondo Cirielli, vice ministro degli Esteri e candidato alla presidenza della Regione Campania. Una triangolazione perfetta tra cultura, diplomazia e politica locale: la cultura come simbolo di presenza nell’arena internazionale e, allo stesso tempo, di costruzione del consenso interno.
E ancora, pochi giorni prima, all’assemblea ANCI, sempre Giuli, in una saporita comparazione culinaria che prende molto alla lettera il principio della cultura come cibo: «La cultura italiana, anche con la sua cucina, artefice della più importante opera di diplomazia culturale».
E poi, qualche settimana fa, in occasione della firma di un decreto per il finanziamento di 64 progetti dedicati alla promozione all’estero della cultura e della lingua italiana: «L’arte resta il più potente strumento di promozione culturale della nostra Nazione: lo dimostra, a titolo di esempio, il canto lirico, che da oltre quattro secoli diffonde la lingua e la cultura italiana nel mondo». Sull’argomento del “bel canto” è ritornata la stessa Giorgia Meloni, in occasione della prima conferenza dell’Italofonia a Roma, svoltasi il 18 novembre, su iniziativa del Ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Che oggi i Ministeri della Cultura e degli Esteri insistano così esplicitamente sul Soft Power culturale può dipendere almeno da due fattori, l’uno la conseguenza e la causa dell’altro. Da un lato, la consapevolezza sedimentata che la cultura crea e veicola influenza più che reddito, reputazione più che produzione. Dall’altro, una fame di legittimazione da parte di una destra di governo che rivendica il riconoscimento dell’identità culturale di un’area politica le cui radici affondano in ambienti estremi. Lo stesso Giuli è stato iscritto al Fronte della Gioventù ed è passato per l’area neofascista di Meridiano Zero. Anche l’ex ministro Gennaro Sangiuliano proviene dal Fronte Universitario d’Azione Nazionale e ha militato nel Movimento Sociale Italiano negli anni Ottanta. È il meccanismo tipico del Soft Power, rovesciato anche all’interno: una riserva di credibilità che permette di compensare simbolicamente azioni ed eredità controverse, bilanciando la percezione complessiva.
In questo quadro, la cultura non è più un oggetto, un bene da consumare o da scambiare, ma «Uno strumento di promozione» che sembra agire come terza via rispetto alla canonica scelta tra il bastone e la carota dell’Hard Power, in una estensione protezionistica – e quindi anche un po’ distorta – dei principi della geoeconomia turbocapitalista di Edward Luttwak. Non un settore da finanziare e nemmeno un giacimento da sfruttare ma un dispositivo di autorappresentazione che satura il dialogo attraverso il monologo di un’identità nazionale che si pretende totalizzante ed esclude ogni altra voce, lasciando poco margine a meccanismi di contraddittorio.
Fino all'8 dicembre Roma Convention Center – La Nuvola ospita l'edizione 2025 di "Più libri più liberi", la fiera nazionale…
Da Benni Bosetto a Rirkrit Tiravanija, passando per un omaggio a Luciano Fabro: annunciate le mostre che animeranno gli spazi…
Un viaggio in quattro cortometraggi per raccontare quattro luoghi storici di Verona attraverso la calligrafia, la scultura, la musica e…
In occasione della mostra al Centro Culturale di Milano, abbiamo incontrato Nina e Lisa Rosenblum, figlie del celebre fotografo americano…
Andrea De Rosa porta in scena il Dracula nella scrittura di Fabrizio Sinisi: il Teatro Astra di Torino si tinge…
Intervista a Bettina M. Busse, curatrice della prima grande retrospettiva austriaca dedicata a Marina Abramovic: in mostra all'Albertina Museum, le…