Per il progetto espositivo ospitato nei Giardini della Biennale di Venezia il curatore Massimiliano Gioni ha posto l’accento su identità artistiche che operassero sistematicamente in gruppo (A12 e Anna de Manincor/ZimmerFrei) o in altri casi si è rivolto alla soggettività euforica ed espansa dell’estetica relazionale di Patrick Tuttofuoco, o ancora alla dimensione familiar-campestre di Alessandra Ariatti.
Sei artisti in tutto per un’idea di base secca e coerente. Il tutto però offre, ad un’attenta analisi, diverse “zone” d’ombra. Come per esempio il senso di commissionare agli A12 una struttura architettonica ad hoc, funzionale ma allo stesso tempo aperta, in grado di mitigare la retorica ottocentesca dei padiglioni ma che, tra le altre cose, si è rivelata estremamente precaria e poco stabile. Va bene, l’idea era costruire un luogo di ritrovo, una specie di piazza, uno spazio sociale di incontro. Ma non doveva essere anche di un luogo espositivo?
Ergonomicamente scomodo da vivere e molto simile ad un’enorme scenografia cinematografica, il padiglione cela uno spazio espositivo angusto e claustrofobico, praticamente indifferente nei confronti degli altri artisti coinvolti. Alla retorica ottocentesca si è sostituito ancora una volta lo svilimento retorico intrinseco nel gap spesso incolmabile tra arte e architettura. Visitando il suo interno la sensazione è di essere in uno spazio parzialmente concepito per gli altri progetti, con conseguenti problemi di allestimento. Pressappochista e raffazzonato.
Ma l’idea del progetto è decisamente un’altra: tratteggiare un panorama dell’arte contemporanea italiana frammentato e variegato, composto di soggetti artistici con background e soluzioni poetico/stilistiche disparate. La relazione che, per esempio, Alessandra Ariatti e Micol Assaël intrattengono con la tradizione, l’intimità e la sfera privata: il “ritorno all’ordine” pittorico dei soggetti “strapaesani” dell’una e gli ambienti minimal ed insidiosi progettati da Assaël. Anna de Manincor/ZimmerFrei e Diego Perrone accomunati da un’estetica dell’eccesso, del pugno nello stomaco; la consapevolezza di un punto di non ritorno con la decisione di non procreare
La Zona è sicuramente un progetto audace e coraggioso, un modo innovativo di pensare e operare che però ha mostrato non poco il fianco. Ha mancato di radicalità: perché coinvolgere Patrick Tuttofuoco e Diego Perrone, trendygiovani super collaudati, ed una perfetta sconosciuta come Alessandra Ariatti? Perché non cercare radicalmente di delineare una seria alternativa sulla falsariga delle promettenti Assaël e de Manincor?
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Non saprei.
che dire... bell'articolo!