Ai mondi possibili che Birnbaum ha raccolto tra Arsenale ed ex Padiglione Italia fa da eco in molti padiglioni nazionali l’utilizzo della videoarte, medium più vicino al contesto narrativo evocato dal titolo della 53. Biennale. Tanto che si potrebbe quasi vagheggiare una sotterranea rassegna nella rassegna, intitolata
Fare video. Nei padiglioni di Polonia e Paesi Baltici, ad esempio, ci si riferisce pressoché unicamente ai linguaggi della videoarte, anche quando ci si allontana da una matrice esplicitamente narrativa, per esplorare opzioni più materiali.
In
Guest,
Krzysztof Wodiczko dà spazio alle testimonianze d’immigrati a Roma e Varsavia, eterni ospiti che non possono sentirsi a casa propria. Sulle pareti del padiglione polacco vengono proiettati dei portali su cui s’alternano ombre indistinte che vediamo al lavoro, in pausa o immerse in conversazioni. I loro racconti denunciano emarginazione, precarietà, incertezza, con una modalità espressiva che riesce a conquistare l’attenzione dello spettatore, ma che appare troppo elegantemente teatrale per scuoterne davvero la coscienza.
Più efficace il lavoro di
Kristina Norman, che attraversa la storia di un vecchio monumento, simbolo di due opposte memorie collettive, ricordo dell’oppressione sovietica e simbolo della propria identità per la minoranza russa. Nel 2007, lo spostamento del monumento dal centro al cimitero militare, a 2,5 km di distanza, fece scoppiare una violenta protesta, durata due notti, prima che la polizia riuscisse a prevalere. L’artista che rappresenta l’Estonia ne racconta antefatti, sviluppo ed epilogo, realizzato il 9 maggio scorso, quando ha ricollocato nella sede originale una copia dorata, attirando l’attenzione di chi continua a frequentare quel luogo simbolico, e della polizia, che ha nuovamente rimosso la statua.
Convince anche la doppia mostra del padiglione lettone, la cui protagonista è la natura.
Evelina Deicmane ne esplora situazioni limite. Come nel video principale, in cui nove persone sepolte fino al collo nella neve sono riprese da lenti piani sequenza e primi piani, come se si trattasse di un surreale ed enigmatico coro silenzioso, concentrato su se stesso e sul proprio disagio. Quella di
Miks Mitrevics è una natura meno ostile, anzi fragile, come avverte il titolo della mostra. L’artista ne addomestica i paesaggi in artificiali set in miniatura, fatti di scorci e panorami in cui sono inserite piccole sagome umane. La luce è il loro elemento portante, che li immerge in eterni tramonti, alla cui artificialità fa da contraltare l’energia solare che li alimenta.
Nelle opere del lituano
Zilvinas Kempinas, i videotape acquistano la forma di sculture, fatte non di luce solida – come quelle di
Anthony McCall – ma della materia leggera e fluttuante che conserva l’impressione. Nella vecchia scuola della Misericordia, l’artista costruisce un tunnel fatto di strisce di pellicola intervallate tra loro. Un luogo dalle pareti traslucide, che modificano la percezione dello spazio esterno ed enfatizzano i movimenti che si svolgono dietro di esse.