Via d’Azeglio, accanto a Piazza Maggiore, è una delle vie di classe di Bologna, dove spesso passeggiano e si fermano a bere qualcosa i vip della città. E in questa strada si trova una galleria tra quelle di miglior tradizione, la Galleria d’arte Maggiore. Il visitatore che vi entrerà oggi troverà un decennio di produzione di Mattia Moreni (Pavia, 1920 – Brisighella, 1999), nella mostra più interessante e meglio strutturata che è possibile vedere a Bologna. C’è da rimanere sbalorditi già all’ingresso, dove c’è una tavola ovale alta tre metri e mezzo con dipinto ad olio un enorme coltello sanguinante. Questo introduce bene all’atmosfera che percorre la mostra: una gigantografia della regressione, segnata dalla consapevolezza e da un sapore grottesco e divertito, quasi infantile. L’esposizione ripercorre due filoni principali: quello degli autoritratti e quello dell’identikit artificato o “umanoide nel computer”.
Negli autoritratti Moreni si dipinge come un soggetto dotato di doppio sesso e decorato da tacchi, gonne e cappelli; oppure come un sesso maschile che si trasforma in una testa con due occhi spalancati e privi di emozione; o ancora come un volto cancellato dalla tecnologia e dal computer. L’evoluzione tecnologica è per Moreni sinonimo della fine della vita e della comunicazione. Il computer ingabbia e incapsula l’uomo, che si ritrova isolato dai suoi simili, su uno sfondo monocromo dai colori sfavillanti, ma privi di ogni elemento se non le scritte pastose dello stesso artista che chiede incessamente: “Perché?”.
La sua ossessione diviene mano a mano quella di cercare intimamente di spiegare agli altri e a sé stesso il progresso vorticoso, la perdita di valori, l’esaltazione del consumismo (come nel suo ciclo sulle scarpe di moda).
In questo percorso l’arte di Moreni diviene “sempre più straripante e deflagrante, sempre più delirante e apocalitticamente vitalistica, nel senso di un pessimismo cosmico”, come scrisse Francesco Poli quattro anni fa in un testo critico riportato oggi sul catalogo della mostra. Pubblicazione in cui sono presenti complessivamente trentaquattro testi, di diversi autori, scritti dal 1956 al 2002 e tratti dalle principali mostre. L’unico testo inedito è quello scritto per l’occasione da Alessandro Bergonzoni, padrino dell’esposizione, presentato come apporto d’eccezione. Che presenta questo artista schivo, che si è sempre tenuto lontano dall’esibizionismo, con una serie di definizioni legate l’una all’altra da una virgola. Così Moreni diventa: “… una buccia di scimmia, un cucuzzolo in giù, l’erba bianca, un deletereo albo suvrumano, essere inenarrabilmente, un parossistico placebo mammellare, invisibile conicità, un qualcosa di oftamilico” e una lista molto lunga di altre accezioni.
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carolina lio
mostra visitata il 29 giugno 2005
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Mettiamo i puntini sulle "i", cioè dove dovrebbero stare. Innanzi tutto Moreni faceva l'artista, e quello che scriveva erano frasi a completamento del proprio lavoro. Bergonzoni con il suo scritto doveva invece fare - almeno nelle intenzioni- una presentazione critica. E già sono due cose completamente differenti. Poi ci mettiamo anche il fatto che Moreni era nella sua astrusità coerente e ricco di senso, inquisitorio, lineare in un percorso di ricerca tra i più validi del Novecento, e che Bergonzoni ha scritto, invece, un testo fine a se stesso, che non si interroga su nulla e non descrive nulla se non al massimo le ultime parole difficili trovate su Selezione. Direi che c'è una bella differenza.
Carolina Lio
ma io credo che moreni avrebbe preferito uno straparlante strampalato bergonzoni ai barilli e ai poli. Il moreni dei cazzi delle fighe e delle angurie dico. Carolina, hai letto cosa scriveva lo stesso moreni sulle sue tele?
Vorrei esporre una mia personale opinione che per ovvie ragioni non è stato possibile pubblicare nell'articolo. Il testo scritto da Bergonzoni è (sempre e solo nelle mie opinioni) una catena di parole ricercate appositamente tra quelle meno in vista nel vocabolario italiano. Non delineano nemmeno lontanamente la personalità di Moreni, non hanno valore critico, non sono descrittive nè valutative. Sono parole fini a se stesse e che svelano un poco pacato esibizionismo. Il fatto che la galleria d'arte Maggiore, che stimo per gli artisti che ospita, abbia chiamato proprio Bergonzoni è allora solo una scelta dettata assai più dalla valorizzazione mondana piuttosto che intellettuale che si desiderava questa esposizione avesse? Molto probabilmente si, visto anche che nel comunicato stampa è stata sottolineata (e diciamo anche esaltata) la componente Bergonzoni, mentre sono stati ignorati altri nomi ben più meritevoli che compaiono nello stesso catalogo (Renato Barilli e Francesco Poli, per esempio).
Carolina Lio
bergonzoni è uno scrittore e non un critico d'arte. dunque ha scritto un testo da scrittore, che accompagna la mostra e non si dà l'obiettivo di spiegarla. che palle carolì
evidentemente la lio non coglie ciò che non può arrivare.