Le testimonianze si intrecciano. I frutti del lavoro di catalogazione del patrimonio artistico e scientifico di proprietà della Sanità Pubblica si ordinano ripercorrendo la vita di Bologna e della regione. Una lunga storia legata a quella della città, non solo perché fin dalle origini, dalla fine del Duecento, trovava luogo nel cuore urbano ma anche perché, con i suoi edifici e la vasta raccolta, è possibile seguire con continuità il mutare del contesto sociale, del pensiero medico-scientifico e del gusto nell’arte fino ai nostri giorni. La collezione, che conta opere d’arte, libri, arredi, materiale didattico e strumenti scientifici provenienti da collezioni diverse, ma anche palazzi e luoghi di culto, si dimostra perciò eccezionalmente varia.
Protagonisti sono i due fulcri d’origine dei luoghi deputati alla sanità cittadina: le sedi della mostra. Le stanze dell’antico Ospedale della Vita (oggi sede del Museo della Sanità) ospitano le raccolte a carattere scientifico rammentando, con i teatri anatomici, le pubblicazioni didattiche e i modelli di cera, l’inevitabile interscambio tra i luoghi della pratica medica e l’Università. L’evento è anche occasione di visita dell’oratorio adiacente, gioiello barocco, che ospita il Transito della Vergine. Una sacra rappresentazione cristallizzata di Alfonso Lombardi (1497-1537) in risposta alla tradizione più alta di terrecotte locali. Nei luoghi del vecchio Ospedale della Morte (ora Museo Civico Archeologico), invece, sono le collezioni d’arte. L’ordine quasi didattico dell’esposizione si articola in percorsi ed argomenti che soddisfano una necessità informativa e motivano la varietà stessa dei pezzi esposti. Alcune opere serbano un valore per lo più documentario mentre altre si dimostrano, piuttosto, piccoli tesori a sé: preziosi brani d’arte, a volte di autori ignoti, giunti per i motivi più vari a far parte di una raccolta che è essa stessa epilogo di vicende minori. Sotto la luce dello
Appare meno entusiasmante la collezione contemporanea. Seppure non manchino i nomi noti del Novecento italiano, da Salvatore Fiume (1915-1997) a Giorgio Morandi (1890-1964) e Carlo Zauli (1926- 2002), il tono della mostra sonnecchia un po’. È forse la natura stessa della raccolta, legata alla normativa post-bellica che impegnava all’acquisto di opere d’arte come percentuale della spesa pubblica, ad aver risentito di alcune acquisizioni poco ispirate. Con qualche eccezione. Il Grande Vaso di Pietro Melandri (1885-1976) dai colori generosi e la fantasia ornamentale libera e solare non lascia dubbi. La sua gioia vitale chiude felicemente la rassegna di opere esposte con una lirica universale alla natura che sembra voler cancellare le ombre più cupe dell’infermità.
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maria alessandra chessa
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