Associare la danza al sacro è fatto atavico, istintivo. Due dimensioni – una corporea, l’altra spirituale – in qualche modo legate alla semiotica. In entrambi i casi si dispiegano matasse di segni (gesti, riti, codici) attraverso cui dare senso all’esistenza. Per tutte le culture, in ogni tempo, le danze sacre sono state un importante veicolo del rapporto tra l’io e la trascendenza. Il nuovo progetto di
Silvia Camporesi (Forlì, 1973) ha a che fare con una spiritualità connessa a un profondo senso della rappresentazione scenica.
Dance dance dance, titolo rubato al romanzo del giapponese Haruki Murakami, è un invito alla leggerezza del gesto originario ripetuto senza sosta, quel movimento rituale che non spezza il fiato e non approda alla parola. Vengono in mente il sufismo o il teatro tradizionale indiano. L’imperativo categorico è ‘non smettere di danzare’, che significa anche ‘non interrompere il viaggio incontro all’oltre-da-sé’.
È sensuale la fotografia di Camporesi, epidermica, tattile, scandita da equilibri formali che traducono un intento estetizzante. Cromatismi densi, texture pastose, luci morbide: il sacro passa attraverso il corpo, necessariamente. Questa mostra è un po’ un percorso iniziatico. Dal buio verso la luce, dal raccoglimento alla rivelazione.
Il
Grado zero della prima fotografia è quello di una discarica, montagna di ferraglia arrugginita: si disegna, sullo sfondo di un cielo terso, la metafora residuale di una condizione umana che prelude alla ricostruzione, alla liberazione. Poi, una galleria di ritratti femminili, donne in posa come statue, come attrici, come sante. Dall’immobilità di un gesto d’
Ouverture, invito a una simbolica apertura delle danze, fino ai sei ritratti della serie
Scosse, scotimenti di dolore psicologico declinati da uno stesso volto femminile. Qui l’enfasi mimica, intrappolata in un eccesso di maniera, è comunque funzionale a una volontà interpretativa che non dissimuli l’artificio del teatro.
È una luce siderale, diafana, quella che incapsula le due ingannevoli immagini dal titolo
Albedo. Un panno azzurro, annegato in una vasca da bagno, evoca nella forma accidentalmente assunta il manto di una Madonna evaporata; mentre, con un procedimento opposto, dei frammenti di perline colorate a tutto farebbero pensare tranne che alla verità di due cataste di rosari. Ancora un trucco visivo nei due piccoli video in stop motion, un giradischi che fa ruotare una statuina di Gesù e un filo di lana tirato fuori dalla bocca all’infinito. Haiku quasi immobili che fanno il verso al loop di una preghiera, nell’eterna ripetizione di un tempo circolare.
L’ultimo step del percorso, il più intenso, è una coreografia allo stato fluido. Ancora nel segno di quell’antica corrispondenza tra femminino ed elemento acquatico, Silvia Camporesi descrive il percorso di una misteriosa figura, esploratrice del fondo di una piscina. La veste rosso rubino si gonfia d’acqua, i movimenti lentissimi tagliano lo spessore liquido, nel rumore di flutti spostati, penetrati. Una decorazione geometrica sulle piastrelle allude a una croce stilizzata. È la meta del viaggio, icona casuale e prosaica che arresta il cammino, a un passo dalla rivelazione.
Visualizza commenti
Può darsi anche che sia uno scoop... si sa che i vincitori del premio celeste e anche i finalisti sono tutti scelti in base ad un "disegno" corrotto come in tutti i concorsi. In parole povere molte opere che meritano senza ombra di dubbio di essere nella finale non ci sono. Ad ogni modo l'opera presentata da Silva per l'edizione di quest'anno è molto bella, fa un pò troppo "moda" il suo lavoro ma quella è bella.
Il Premio Celeste 2007 non è ancora stato assegnato, Silvia Camporesi figura tra le finaliste. Oppure è uno scoop, Sonia? Facci sapere!
hai vinto il premio celeste....brava.
ti piace vincere facile ...ponci ponci ponci po' gioca al gratta e vinci.
o vai al premio celeste
che tristezza!
nasconditi
che cose da ridere. ma e' sempre peggio.