Un organico progetto espositivo, per la personale in corso negli spazi di Villa Serena a cura di Alessandra Borgogelli, dell’artista trentino Marco Dalbosco, strutturata con modalità d’intervento differenti –video, fotografia, installazione e performances– che tira le somme del proprio percorso e ne fornisce una versione concentrata e di grande coesione estetica e concettuale.
La fabbrica tessile è l’orizzonte operativo e di ricerca dell’artista: un ambiente di lavoro alienante e spersonalizzante ricreato con leggerezza e grande rigore formale. La “presentazione” quasi ossessiva di una condizione esistenziale vissuta all’interno di un habitat sterile, quello dell’industria, che esplode verso una dimensione “altra”, immateriale. Una visione fredda e distaccata che non lascia spazio ad alcuna componete ludica o emozionale, né a moralistiche prese di posizione.
Se le macchine celibi duchampiane con il loro funzionamento ‘a vuoto’, proprio perché improduttivo, erano però circuiti energetici, i movimenti serrati e banalmente ripetitivi di questi grovigli macchinici, per nulla antropomorfi, ricreano, soprattutto nel video, un’alterità eccessiva e disturbante.
Nelle sequenze filmate, in cui tutti i telai sono azionati a velocità insostenibile rispetto alla nostra consueta percezione, viene enfatizzata questa vacua processualità, un loop di meccanismi legati alla produzione seriale e come tali azzerati in un continuum dall’effetto ipnotico. In questa “fabbrica nuova” ricreata dall’artista con estrema perizia e che mostra dall’interno margini insoliti e stimolanti di creatività, il giorno dell’inaugurazione è avvenuta una performance, dove tra il sonoro martellante e invasivo delle macchine reali riprese nel video, alcune danzatrici – Natasha Belsito, Erica Cappelletti, Sara Palla con la coreografia di Gloria Potrich – tracciano nello spazio traiettorie sospese e ineffabili: sono tramature parallele, schemi che si intersecano come nella tessitura e in una polarità dialettica tra corpo e macchina, ripetono gli stessi movimenti del telaio. Dopo alcuni secondi il ritmo sonoro e visivo è già insopportabile, una dilatazione temporale rende l’azione molto suggestiva.
Poi Dalbosco lavora con la componente installativa attraverso un plastico (corredato da un ironico libretto di istruzioni) che riproduce in scala 1:18 una serie di telai di carta, e inondato nell’allestimento da una luce abbacinante e violenta nella sua intensità innesca una sorta di trasfigurazione: la fabbrica rivive silenziosa e pulsante in una situazione immateriale. Alcune fotografie del modellino in carta ne sottolineano la visionarietà come frammenti purissimi ma plasticamente ottusi. Siamo pur sempre nell’universo delle macchine. E in uno straniante blow-up l’obbiettivo fotografico dell’artista si addentra in questo micro-mondo per scoprirne qualità estetiche insospettate: purezza, candore e creatività.
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