Ralph Gibson (Los Angeles, 1939) è da quarant’anni uno degli artisti più attivi del panorama fotografico. Vanta collaborazioni con personaggi del calibro di Robert Frank, suo maestro, e Dorothea Lange. Il suo formalismo, la capacità di arrivare tramite una cura maniacale di composizione e proporzioni ad esprimere un contenuto profondo, è la firma indelebile che ogni scatto si porta addosso.
L’attenzione per il particolare affranca l’immagine dal suo contesto reale per farla divenire traccia visiva, in cui poi lo spettatore creerà il suo percorso. Il corpo umano assume quindi la stessa importanza di un muro, di un pallone, tutto diviene architettura, continuum visivo di uno spazio che non ha nulla di reale, è solo impressione.
Brazil è il documentario di una visione, il reportage su di un occhio che osserva e si lascia emozionare come non vi fosse “obiettivo”. Non è una fotografia delle peculiarità, solo le cose semplici e utili vengono immortalate: scorci di vie, pesci, sacchi di caffè, tappeti stesi sulla sabbia. Per i soggetti umani è lo stesso: che stiano lavorando, giocando a pallone, che si stiano perdendo nelle notti magiche e spesso inquietanti delle città brasiliane, è sempre un giorno qualunque, una notte qualsiasi, in cui colori si inseguono e mescolano, facendo perdere agli oggetti forme e contorni. In questo modo il semplice annulla l’ovvio, così come l’ombra i tratti non essenziali.
Infatti, che si tratti di foto a colori o in bianco e nero, spesso il taglio fotografico mette in evidenza il corpo umano, privandolo però del proprio viso. Sembra di poter toccare la pelle immersa nel sole, i muscoli che si tendono sotto di essa; l’attenzione si concentra sull’esperienza tattile poiché la visione è incompleta. Niente occhi, niente sguardo. La banalità è eliminata.
L’effetto intimo e parimenti claustrofobico che ne consegue, la drammaticità del dettaglio deriva dal fatto che non è una semplice visione. Ciò che è rappresentato e’ Gibson che vede. La complessità di tale esperienza visiva, la profondità del suo sguardo spesso necessita più di uno scatto. Per questo a volte le foto si compongono in dittici, si crea una sorta di pellicola fotografica volta a rendere più completa e soggettiva la percezione. Che, nelle parole dello stesso Gibson, permetta ad ogni spettatore di “conquistare la propria cifra estetica, ovvero la capacità che ognuno ha di esprimere la propria personale individualità”.
La mostra, di cui vediamo appunto alcuni –e preciserei esigui- scatti a Villa delle Rose è stata allestita in occasione di Artelibro Festival del Libro d’Arte, dove Gibson in persona ha presentato il volume Brazil, inizio di una serie editoriale sulla visione fotografica di luoghi ed architetture del mondo.
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mostra visitata il 31 ottobre 2005
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