Passati più di sessant’anni dal tragico epilogo della Seconda Guerra Mondiale e dal morbosamente preciso quanto orrendo metodo dei campi di concentramento, ciò che rimane è la memoria. Una memoria a cui sempre più toccherà essere indiretta, vista la lenta scomparsa dei testimoni oculari, anche di quelli più longevi. Anton Zoran Music (Gorizia, 1909 – Venezia, 2006) era uno di loro. I suoi occhi però, rispetto quelli di tanti altri, hanno potuto negli anni, grazie alla collaborazione di una mano sapiente, trasportare su carta parte di quella tragedia vissuta, alternandola nell’arco della ricerca di tutta una vita, a temi di ben diversa natura.
La mostra, che, sempre sotto la curatela di Marilena Pasquali, porta ancora una volta Music in territorio bolognese, si compone dell’immenso patrimonio di schizzi, disegni, gouache, acquerelli che l’artista ha sempre considerato parte integrante della sua opera. Pur avendo frequentato l’Accademia di Belle Arti incontrando come maestro Babic (il più celebre pittore croato, allievo di von Stuck a Monaco) il suo lavoro stenta ad essere etichettato entro i grandi movimenti della seconda metà del XX secolo, come per affinata sensibilità rifugge lo svilente epiteto di naif.
Il percorso della mostra costruisce uno schema ad insiemi, nei quali si raccolgono le opere secondo il criterio della serie, senza con questo chiudere in nessun modo le possibilità di interrelazione. Infatti se è impossibile non seguire queste suddivsioni, che sono esplicitate dalla ricorrenza di un tema in un dato arco cronologico, è altrettanto sensibile quanto questi macro settori attraversino tutta l’opera e riappaiono a distanza di anni. Si tratta proprio della serie Noi non siamo gli ultimi, composta di terribili immagini di morte, che si colloca a trent’anni di distanza dai primi disegni delle vittime di Dachau. Allo stesso modo i Paesaggi senesi degli anni ‘50 ritornano, riveduti e corretti, nelle Rocce della fine degli anni ‘70.
Grande importanza hanno rivestito anche le città dove ha abitato, Venezia e Parigi, anch’esse partecipi di questa “poetica del ritorno”. Venezia è la città che lo accoglie all’indomani dell’esperienza di Dachau, ed è la protagonista di una serie di acquerelli coloratissimi, quasi privi di disegno e incorniciati da una puntinatura che diventerà il tratto distintivo dei ben noti Cavallini.
Per ultimo, ma non meno importante, il tema dell’autoritratto. Fondamentale perché è l’unico che attraversa tutta la sua ricerca, da quel cadavere che porta il suo stesso numero di riconoscimento, fino agli svariati Autoritratto in punta di carboncino dove, come diceva lui stesso, la luce viene dal nero.
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