Merita una visita la mostra in corso alla Galleria Marabini. Incanta infatti la visione delle immagini fuori del tempo di Seydou Keïta, che sa conferire alle gente comune lo statuto di icona senza tuttavia appiattirne la freschezza e l’individualità.
Diversi i riferimenti che vengono alla mente di fronte a queste opere: Nadar e molta fotografia ottocentesca occidentale, la ritrattistica ufficiale della pittura delle corti europee di età moderna, le immagini sbiadite primo Novecento, forse qualche tangenza con Warhol, visto che si è parlato di icone. Di tutto questo, ad ogni modo, non era consapevole Keïta quando tra il 1948 e il 1960 lavorava nel suo studio di Bamako, capitale del Mali. Il fotografo africano ha così messo a punto quella sua tipologia inconfondibile di ritratto, tanto a lungo ignorata e oggi finalmente approdata agli onori che le spettano, a cinque anni dalla morte dell’autore. Keïta, durante la sua vita, poco si è compromesso con il mondo dell’arte e del relativo mercato come noi lo intendiamo, e molto si è impegnato a svolgere quotidianamente, semplicemente, il proprio mestiere, cercando di raccontare il suo Paese e soddisfare le richieste dei suoi numerosi clienti. Quelle persone si sono tutte recate nel decennio 1950-1960 a posare per lui, sfoderando i migliori costumi tradizionali per una fotografia che sarebbe stata probabilmente l’unica della loro vita, scegliendo tra i lavori appesi alle pareti dello studio del maestro quelli che ritenevano adatti a ricordare la propria esistenza alla famiglia presente e futura.
Il risultato è monumentale, senza pretese di essere ac
In queste fotografie si respira la concretezza di un’attività professionale vera, oltre che la figura di un uomo profondamente innamorato del proprio lavoro e della propria gente. Sempre alla ricerca di quel muto quid che solo può raccontare tutta una vita, in un solo scatto.
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Un grande fotografo.