L’impatto dell’esposizione è forte: 14 grandi “pupille” di materiale plastico illuminano la navata centrale della piccola chiesa sconsacrata dove ha sede la galleria. Disposte su pannelli lungo i due lati, paiono scrutare l’osservatore che procede verso l’abside, rischiarandone il cammino e consentendogli di avanzare lungo un percorso altrimenti buio (le finestre sono state oscurate), reso accidentato e faticoso dal fitto strato di “ghiaia” nera (si tratta in realtà di un materiale plastico sminuzzato) che è sparsa su tutti i pavimenti. Questi è dunque costretto a un’esperienza sensoriale cui non si può sottrarre, giacché, insieme alle cinque stalagmiti-lampade che si ergono sotto la volta ribassata del presbiterio e alla tenda che ne ostacola l’accesso, le pupille rappresentano l’unica fonte di luce e la sola nota colorata (fatta eccezione per la volta affrescata) negli spazi resi bianchi e neri della galleria. In un curioso scambio di ruoli l’atto del guardare, in genere deputato al visitatore di un’esposizione, è qui metaforicamente compiuto dalle grandi pupille.
Il fascino e l’ambigua natura del lavoro di Jacopo Foggini (Torino, 1966), difficile da etichettare e da racchiudere in categorie, riposa nel convivere di utilità e irripetibilità nei suoi oggetti biomorfi. Al contempo pezzi di design e opere d’arte, essi sono stati esposti in luoghi destinati ad accogliere gli uni (la Triennale di Milano) e le altre (il Centre George Pompidou).
E l’allestimento della Galleria Marabini gioca proprio con questa ambiguità: le 14 pupille (una coincidenza il fatto che il loro numero corrisponda a quello delle stazioni della Via Crucis?) assomigliano a lampade da muro, ma originariamente avrebbero dovuto accendersi in modo casuale e intermittente, tra loro sfasate, inficiando così la loro funzione pratica. La tenda pare rimandare al ruolo che aveva nelle chiese bizantine l’iconostasi, quella struttura che, oltre a separare il presbiterio dalle navate, consentiva di esporre le immagini sacre. Ma di fatto esibisce soltanto se stessa. Le cinque “stalagmiti” vuote dell’abside, infine, sono raggruppate in due gruppi di due più una isolata, e ricordano più personaggi in dialogo che lampade a stelo.
Qui, dunque, come per tutte le opere di Foggini, l’elemento di novità e di invenzione dato dall’originale lavorazione di un materiale normalmente utilizzato per produrre i catarifrangenti delle automobili rende reticenti a usare la parola “lampada”, mentre la ripetizione, seppur non standardizzata, in forme simili di oggetti fatti di plastica e luce porta a ricondurli proprio a lampade. Ma ciascuna di esse, e le “pupille” dalla medesima forma e dimensione ne sono un buon esempio, è diversa da tutte le altre in quanto caratterizzata da una gamma cromatica mutevole e indefinibile. L’opera di Foggini è sintetizzabile in queste costanti: la presenza di luce, l’uso di filamenti di metacrilato a comporre oggetti dalla forma insolita e un’infinita varietà di colori.
valentina ballardini
mostra visitata il 25 febbraio 2004
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