Cosa succede alla parola, quando l’arte non ricalca più il reale, non è più rappresentazione del mondo di cui fa parte, ma crea un mondo suo, separato dall’originale ma che con esso interagisce e come esso vive e respira, producendo nuovo senso ed interpretazioni? Il linguaggio, spesso considerato nel suo aspetto più simbolico come immediato mezzo di riferimento e ritorno al “detto”, può cercare di far rientrare l’arte nel suo ruolo di “segno di” qualcosa, costituendo meta-testi, critiche, spiegando, collegando. Questo fino a quando il post-modernismo non mise in luce la totale impotenza del linguaggio, la sua incapacità sostanziale di “colpire il segno”, trasmettere, evocare. Troppo lucida e rivelatrice, la parola non sa più comunicare. Avviene allora che non sia l’arte ad avere bisogno del linguaggio per esprimersi, ma al contrario che il linguaggio si faccia artistico, che rinunci al suo statuto-dominatore e penetri l’arte piuttosto che restarne critica esteriore. Allora acquisiscono autonomia sillabe, lettere. Allora la parola smette di parlare ma “si fa parlare”, si fa percorrere da colori, luci, si dilunga in composizioni ed ammette la sua cecità.
Ecco cosa accade nei lavori di Bartolomeo Migliore (Santena, Torino, 1960). Dove parole mezze cancellate rivelano solo in parte ed in parte si celano, si confondono, dove del linguaggio viene messo in luce il carattere menzognero e approssimativo che da sempre si è mancato di rimarcare. Ecco come segno e senso coincidono nelle strutture amorfe di Debora Romei (Castelnovo ne’ Monti, Reggio Emilia, 1970), e nel consumo del colore protagonista dei lavori di Andrea Renzini (Venezia, 1963; vive a Bologna).
Lo scacco non è più tra segno e senso, arte e parola, ma tra celato e mostrato, tra colore e non colore, forma e non forma, parola e non parola. Poiché come disse Paul Klee, “lo scrivere e il disegnare sono essenzialmente simili”, l’arte è comunicativa benchè totalmente sconnessa dal reale, non ha bisogno di spiegazioni e parole che siano al di fuori dell’arte stessa, e il linguaggio non ha più i mezzi e le potenzialità che possono far rifluire nel logico e nel razionale ciò che non vi perviene. Esso stesso ne è in realtà escluso. Esso è impotente nei quadri di Migliore. E si sfalda come le composizioni della Migliore. Come i colori di Renzini.
Azzeccato allora l’inserimento nel catalogo della mostra di un saggio di Alberto Zanchetta dal titolo Humpty Dumpty Encomion, una riflessione sul valore del linguaggio nel lavoro di Lewis Carroll dove “logica e ragione sono sovvertite…il vero e il falso cambiano di posto, destro è sinistro, l’antilogico è logico, il controsenso sensato come un dizionario…in un’esistenza dove il linguaggio è rivoltato come un guanto che ci schiaffeggia”.
Esposizione che di certo non conclude, ma quanto meno suggerisce un importante spunto riflessivo: non più parlare dell’arte ma “mettere in arte” la parola, mostrandone le lacune e colmandole con colori e forme. Smettere di chiedersi cosa sia arte, superare il dilemma contemporaneo dello statuto rappresentativo, non nominare ma lasciare posto all’espressione che significa a prescindere dalle spiegazioni linguistiche.
Perché tutti i quadri sono come Humpty Dumpty, l’uovo di Alice Nel Paese delle Meraviglie: “sono tutti, in un certo senso uova. Esistono, ma non hanno ancora assunto la forma che incarna il nostro destino. Sono puro potenziale, un esempio del non-pervenuto-ancora”.
greta travagliati
mostra visitata il 9 maggio 2007
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