Nuove turbolenze corporee gravitano nell’ultima creazione di Michele Di Stefano per la compagnia mk. Nuove particelle fisiche, evanescenti e concrete, si muovono nello spazio nebuloso della coreografia Maqam, per posizionarsi nella transitorietà del viaggio che la parola del titolo suggerisce: ovvero luogo, stato, ambiente. Il suo significato è legato soprattutto – così apprendiamo – a un sistema di organizzazione melodica della musica tradizionale araba.
Ispirato da questo, lo spettacolo Maqam (al Festival Aperto di Reggio Emilia e a Torinodanza) verte sul connubio e la contaminazione tra il canto del jazzista trombettista di origine irachena Amir ElSaffar e la musica del compositore elettronico Lorenzo Bianchi Hoesh. L’universo acustico che i due artisti creano dal vivo è un affascinante viaggio mentale e spirituale che coniuga tradizione e contemporaneità, sperimentazione ritmica e tecniche vocali mediorientali accompagnate col santur, una cetra su tavola percossa da ElSaffar. Nell’ipnotica e avvolgente maglia sonora che si espanderà con l’intervento di distorsioni acustiche e riverberi, si colloca la danza vibrante dei performer di mk.
L’inizio è con l’alzarsi e richiudersi di un sipario sul fondo svelando un’alba di luce rossa con una figura a terra immersa nella semioscurità; il subentrare di una silhouette ferma ad un lato del proscenio a fissare un orizzonte, che scompare per lasciare ad un’altra figura il successivo posizionarsi danzando. Il movimento ricorrente che si attiva in tutti i performer è caratterizzato da un flusso rotatorio intermittente, uno sciabolare ellittico generato da vertiginosi stimoli delle braccia e da volteggi ascensionali che a turno eseguono entrando e uscendo di scena – modalità tipica della pratica del coreografo -, e sfumando le loro presenze nel disporsi dentro spazi caratterizzati da buio e semioscurità, squarci luminosi e tagli netti. Nel dissolversi delle traiettorie disegnate dal singolo, subentra l’orbitare di altri. Come pianeti che s’incontrano. Al formarsi di improvvisi cerchi che ritmicamente si espandono e si chiudono, seguono, a intervalli, una serie di convulsi intrecci in più direzioni, con i corpi che si toccano, si sfiorano, si bloccano e riprendono sollecitando gesti e stimoli nei movimenti che il gruppo attiva.
Verso il finale si crea una concatenazione umana, una lenta poi turbinante sequenza ritmata dai performer, ora tutti elegantemente in nero. Si fermano, si girano lentamente rivelando un oggetto che riluce in bocca; quindi con le braccia connesse, siedono a terra di spalle, fanno tentativi per sollevarsi, si alzano e avanzano eseguendo una sorta di danza sirtaki, che richiama comunque un ballo folkloristico.
Questo spiazzamento con una scrittura di passi specifica, ben articolata rispetto al resto più etereo della coreografia dal formalismo evocativo, non interrompe il flusso emotivo che diffonde la danza corale. Libera, piuttosto, un immaginario spaziale in cui le posture dei performer vengono percepite come corpi sonori generatori di altri suoni, indipendenti dalla musica di Elsaffar e di Bianchi Hoesh, e contemporaneamente come recettori di movimenti. Una magia, Maqam, rarefatta e siderale, che continua a farci viaggiare.
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