Ph. Andrea Avezzù, Courtesy La Biennale di Venezia
Opera contemporanea, senza tempo, di ieri e di oggi, Coro è un mix potente di espressioni musicali, di voci e danza, di ritmi, sonorità e movimenti che si espandono, si dissolvono, rientrano e vanno in profondità. Visivamente, un mosaico umano, una parete vibrante di corpi e note. In una scena illuminata in alto da finestrelle led, dal variare di luci prevalentemente rosse sul palcoscenico prolungato sulla buca orchestrale, 20 danzatori della Company Wayne McGregor, un ensemble di 40 strumentisti – dell’Orchestra del Teatro La Fenice -, di altrettante voci soliste – del Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini” – distribuiti in mezzo agli orchestrali e amalgamati insieme sul fondo della scena, hanno dato vita ad un vero e proprio evento teatrale nel segno della sperimentazione: quella di Coro di Luciano Berio, un’originale scrittura orchestrale e corale sulla quale Wayne McGregor, direttore della Biennale Danza, ha costruito una superba partitura coreografica coi corpi di dieci danzatori della sua compagnia londinese, e dieci giovani allievi usciti dall’ultimo quadriennio della Biennale College.
Considerato uno dei capolavori di Berio, l’opera fu eseguita in prima italiana nel 1976 alla Biennale Teatro e Musica all’epoca diretta da Luca Ronconi. Il nuovo allestimento scenico, che ha debuttato con grande successo al Teatro La Fenice, rientra nel ciclo dei Progetti Speciali dell’Archivio Storico della Biennale col quale si è voluto rendere omaggio al grande compositore avanguardista ligure nel centenario della nascita. La sua straordinaria capacità di creare nuove forme da una eterogeneità di materiali, trova in Coro, una summa del suo magistero.
Descritto dallo stesso Berio come una sorta di calviniana “città immaginaria” – riferimento alle Città invisibili di Italo Calvino –, Coro è un organismo pulsante, caleidoscopico, di inedita forza espressiva, violenta nei timbri, audace nelle sonorità e vocalità coloristiche che, intrecciando canzoni e testi, attingono a materiali di diverse tradizioni popolari del mondo care a Berio: Perù, Polinesia, Persia, Croazia, Cile, oltre che delle regioni italiane.
In questa dinamica ballata multilingue, la danza, a tratti, sembra disegnare la musica, o viaggiare in totale autonomia, cercare un rapporto facendosi rifrazione gestuale dei suoni strumentali e delle disparate vocalità, con un segno di linee e posture che ricorda la libertà creativa di Merce Cunningham. Lentezza e accelerazione, respiro ed energia, immobilità e abbandono, contraddistinguono la partitura coreografica che amplifica il polifonico dispositivo scenico.
Di stampo neoclassico, la danza astratta di McGregor è un distillato di gesti e di movimenti disarticolati, rigorosi, fluidi, che si creano, si compongono e si disperdono in continuazione, formando gruppi, micro-gruppi, duetti e assoli, dove si osserva gli altri e si è osservati tra improvvisi unisoni e libere variazioni, e con un finale circolare che sembra celebrare un rito collettivo, mentre la proiezione ripetuta di un verso del poeta Pablo Neruda, «Venid a ver la sangre por le calles» (venite a vedere il sangue per le strade) che ricopre di luce rossa il tappeto del palcoscenico – evocazione degli orrori della guerra civile spagnola – ci riporta agli orrori del nostro tempo malato, ma lasciando uno squarcio di speranza, perché «…nella musica di Berio – dice McGregor nell’approccio all’opera – c’è una luce anche nel mezzo della violenza: la possibilità di creare delle costellazioni umane».
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