Looking for… La collezione di Alessandro Pedretti alla Triennale di Milano è una perla di una collana che con maestria si compone da qualche anno: un ciclo di mostre che con puntualità, e sempre ad ingresso gratuito, sta mostrando al pubblico un ventaglio di icone casalinghe che raccontano storie progettuali, temi, inspirazioni, eccellenze. Uno modo elegante per far prendere aria ad una collezione assai vasta e accendere le luci oltre gli stereotipi.
La raccolta, che allinea circa 400 pezzi, messa a disposizione della Triennale, nasce dal puro piacere del collezionare, supportato da una profonda consapevolezza storico-teorica. In più di vent’anni di ricerca lungimirante e consapevole, condotta secondo un preciso progetto, Pedretti ha raccolto una miniera di oggetti appartenenti alla cultura materiale tipicamente italiana. In molti casi si tratta di oggetti anonimi, oppure non ancora entrati a far parte dell’Olimpo del design.
Una raccolta che inizialmente contava icone di noti progettisti ma che alla fine è andata ad annoverare item dal design silente, quello anonimo di tanti uffici sviluppo prodotto delle tante aziende italiane che lavoravano -felici, orgogliose- pur non sapendo di fare design.
La ricerca di Pedretti si muove per famiglie tipologiche. Qui la prima novità per una mostra che potrebbe essere scambiata solo per puro intrattenimento culturale. Lo spirito del collezionista e l’anima della curatrice regalano una compagine di oggetti che va dalle sedute alle luci, dal complemento d’arredo per la cucina all’elettrodomestico. Un lavoro di antropologia ed etnografia del design.
Gli oggetti scelti spesso non sono immediatamente riconoscibili e noti, ma fanno parte di un immaginario formale, di uno spirito sociale e creativo dell’epoca, che li rende altrettanto importanti, degni di attenzione e studio.
Così, accanto a pezzi storici come la Lettera 22 (1950) o la macchina da cucire Mirella di Marcello Nizzoli (1957), il telefono Grillo di Marco Zanuso e Richard Sapper (1967) e le lampade di Achille e Piergiacomo Castiglioni, trovano posto, per fare solo alcuni esempi, famiglie di oggetti come gli orologi sveglia, che spaziano da quelli prodotti da anonimi per Veglia negli anni Settanta a quelli disegnati da Joe Colombo e Rodolfo Bonetto. O, ancora, gli occhiali, che vanno da quelli anni Trenta a quelli disegnati da Matteo Thun per Swatch nel 1991.
L’accostamento di pezzi “anonimi” e icone del design consolida il sogno e il cruccio del designer moderno: dare anima, calore e personalità a tutti gli oggetti, che come dichiara Pedretti sono vivi e utili.
Ecco allora accendini, interruttori, battipanni, calcolatori, sifoni per seltz e tanti altri oggetti di uso quotidiano. Con la stessa naturalezza con cui il signor Alessandro, distinto e sincero, non
Un altro punto di forza della mostra è l’allestimento. Tutti gli oggetti sono cristallizzati in teche trasparenti, classificati sapientemente come in un archivio, retro-illuminati, censiti con dovizia su fogli a disposizione del visitatore.
Dal pavimento al soffitto per tre dei lati della stanza. Il processo di consultazione però accende un dubbio, dà spazio ad una provocazione: tre alte scale metalliche permettono di raggiungere ogni livello di esposizione, rendendo possibile l’esplorazione del dettaglio per ciascun oggetto. La serietà del bibliotecario e dell’attento osservatore tuttavia cedono il passo ad un pensiero più lugubre e dissacrante. Quelle stesse scale assomigliano alle scale del cimitero che si maneggiano quando il caro estinto riposa oltre il terzo piano.
Oltre la licenza della visione, una riflessione: visitare le icone fa bene, accende un ricordo, aiuta l’ispirazione, annienta l’autostima. In attesa de I Saloni. Senza nostalgie, never.
M2
mostra visitata il 31 gennaio 2006
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