Categorie: didattica

didattica_interviste | Marco Dallari

di - 11 Febbraio 2011
Dal suo punto di vista di docente in accademia prima e all’università di
oggi, com’è cambiata la didattica dell’artenei museiitaliani dagli
anni ‘90 a oggi e cosa scorge nel futuro?

L’aspetto positivo è che ormai
non c’è museo privo di una sezione didattica, e anche se l’Italia è arrivata in
ritardo rispetto al resto d’Europa, il gap attualmente sembra colmato. Questo
dato positivo riguarda però l’aspetto quantitativo; non sempre, infatti, la
qualità e l’innovazione pedagogica e didattica caratterizzano questi luoghi. Va
infatti ricordato che il boom dei laboratori risale a quando, dopo anni in cui
la direzione scientifica e quella amministrativa, nei musei, erano separate,
sono state unificate e la direzione ha dovuto rendere conto anche di quanti
visitatori riesce ad attrarre. Così i direttori hanno scoperto che le
scolaresche in visita sono, da questo punto di vista, una grande risorsa, ma
sui laboratori, sulla selezione del personale e sulla sua formazione viene
investito molto poco. Basta vedere quanto, nella distribuzione delle voci del
bilancio di ogni mostra, viene assegnato alla didattica: solitamente un’inezia,
molto meno di quanto si spenda per editare costosi e non di rado
autoreferenziali cataloghi. Quanto alle previsioni per il futuro, spero che si
valorizzi sempre più il sistema formativo
integrato
, vale a dire quel progetto di formazione in cui la scuola
interagisce con aule e laboratori esterni: biblioteche, laboratori museali ecc.
Se questo diventasse non opzionale ma istituzionale forse ci sarebbe quell’investimento
sulla qualità che oggi, a volte, latita.


Quali gli ingredienti necessari nella formazione dei
futurieducatori musealinonché il loro aggiornamento? Intravede
sinergie sempre più necessarie?

Un buon educatore-animatore
museale dovrebbe essere preparato su tre versanti: quello tecnico, pratico e
laboratoriale, corrispondente alla formazione delle Accademie di Belle Arti,
quello storico, critico e semiotico riferito alla materia-arte, quello
psicopedagogico e didattico riguardante l’utenza infantile e la corretta
relazione con essa. Dovrebbe conoscere inoltre le risorse culturali ed
editoriali disponibili: penso ai tanti bei libri per ragazzi presenti e
utilizzabili anche con tecniche di animazione. Questi ultimi requisiti hanno
come riferimento, attualmente, differenti facoltà universitarie: nessuna
istituzione formativa ha compiutamente e istituzionalmente tutte queste risorse
formative, e nell’impossibilità, di questi tempi, di pensare investimenti
innovativi, occorrerebbe un progetto formativo basato su sinergie
accademia-università. Ma poi le istituzioni museali sarebbero disposte a
preferire operatori preparati, che andrebbero assunti e pagati secondo le loro
prerogative, ai molti giovani dal futuro e dalla preparazione incerta che possono
continuare a sfruttare alimentando il calderone del precariato? Sono convinto
che se ci fossero domanda e mercato, i percorsi formativi sarebbero già
attivati.


Intervenendo da anni in tutta Italia si è fatto una mappa delle
“scuole”, delle metodologie italiane anche magari a confronto con
esempi internazionali?

A parte alcune esperienze di
punta, Bologna, Torino, Trento-Rovereto, e alcune altre, che però in Italia non
sono più di una decina, i riferimenti sono un po’ abborracciati e si rifanno,
genericamente, al modello di educazione
attiva
di Dewey e della tradizione francese, Frenet in testa. Naturalmente
c’è, non di rado banalizzata e fraintesa anche dai suoi seguaci, la scuola di
Bruno Munari, l’unica a essere spesso esplicitamente citata. Ma i pochi che
puntano davvero sulla ricerca e sull’innovazione fanno riferimento,
confrontandosi dialetticamente con loro, ai laboratori del Centre Pompidou di
Parigi e con i grandi musei del nord Europa dove da decenni si considera il
laboratorio per i giovanissimi non un “valore aggiunto” ma una prerogativa centrale
e qualificante dell’istituzione. Penso ad esempio ai musei olandesi affollati
come da noi i parchi pubblici, la domenica mattina, di genitori e bambini che
visitano le mostre e poi trafficano insieme nei laboratori. Non è difficile
trovare e riconoscere anche in rete questi musei, perché hanno fatto della
ricerca e dell’investimento anche sulle nuove tecnologie una loro bandiera. C’è
poi la risorsa, nuova e interessante, dei laboratori
narrativi
che, a partire dal MoMA di New York, riscoprono l’importanza di
ricollegare i processi intellettuali di tipo narrativo, di cui si sta
riscoprendo l’importanza, alla produzione artistica. Questa tendenza, in
Italia, non mi risulta sviluppata in contesti museali (ma potrei sbagliarmi) mentre
è praticata sia da particolari settori dell’editoria che da alcune compagnie di
Teatro Ragazzi, penso ad esempio ai Piccoli
Principi
di Alessandro Libertini,
i cui spettacoli potrebbero, a mio avviso, trovare spazio nell’ambiente museale
con esiti interessanti e imprevedibili.


Non meno importante e parallela al suo ruolo di docente universitario è
la sua attività di
autore,
conl’ideazione di un vera e propria collana per Artebambini dedicata all’Arte per le Rime. Quasi a voler affermare
il “dovere”di divertirsi ed emozionarsi con l’arte e la parole
soprattutto per chi sceglie di farne la propria professione…

Mi è capitato, a volte, di
parlare con maestre di scuola dell’infanzia che mi chiedevano: devo raccontare
Grimm o Rodari? E io ho sempre risposto: quello che ti piace di più. Perché si
è più efficaci e convincenti se si usa, in educazione, ciò che piace. E questo
principio non vale solo per le fiabe e per i primi ordini di scuola, ma sempre,
in educazione, anche all’università. Sono convinto che gli insegnanti migliori
abbiano sempre delle passioni culturali (chi non ha passioni culturali non è
colto) che dovrebbero poter utilizzare nel loro mestiere, costruendo in grande
autonomia, ancorché in collegialità, i loro progetti didattici, senza troppi
vincoli di programmi che, messi in discussione e fortemente ridimensionati
qualche decennio fa, stanno rientrando dalla finestra con motivazioni di grande
modestia culturale e pedagogica. Sono convinto che non si dovrebbe insegnare
tanto il sapere, ma l’amore, l’interesse e la curiosità per i saperi, la
cultura e la conoscenza, che sono il requisito principale di una buona qualità
della vita. L’esempio del piacere del
sapere
che possiamo offrire come intellettuali e formatori è, credo, il
nostro principale dovere
professionale, etico e politico.

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d’arte per bambini? Non solo

Intervista
a Dallari del 2004

a cura di annalisa
trasatti

[exibart]

Visualizza commenti

  • Il piacere di conoscere il mondo in tutta la sua bellezza, una grande lezione di vita. Grazie Professore!

  • grazie Professore,che vuole insegnare a guardare cose vive e non apprendere fredde nozioni

  • Bravissimo Dallari che ovviamente dall'alto della sua grande esperienza e competenza riassume la specificità della nostra professione fondata su tre tipi di competenze specifiche.
    Una di carattere teorico ovvero la conoscenza relativa al patrimonio del museo. Una di carattere pedagogico ovvero la capacità di saper trasmettere conoscenza, non solo ai bambini, ma a tutti i soggetti in formazione (in-segnare = lasciare un segno) anche in considerazione della normativa Europea in materia di Lifelong Learning. La terza, ma assolutamente paritetica, la competenza pratica il saper fare, correlato capacità di tradurre senza tradire i contenuti in azioni e oggetti, offrendo ai partecipanti autentiche esperienze di vita. Mi permetto di ricordare a Dallari, che ringrazio a nome di tutta la nostra categoria, che Rivoli non è Torino e che il Dipartimento Educazione del Castello di Rivoli anche in concorso con le colleghe del Mambo e di tante altre prestigiose istituzioni attraverso la Carta di Edu©Arte si batte per il futuro della nostra professione che a mio avviso e nella declinazione dei musei d’arte potrebbe assumere la denominazione di Artenauti (viaggiatori dell’arte).

  • Sono un'isegnante precaria di disegno e storia dell'arte in attesa delle nuove decisioni del Ministero riguardo la professione di insegnanti con titoli di accademie di belle arti.
    Navigavo per vedere le offerte sulle mostre dove poter portare i miei ragazzi e mi sono imbattuta su questa intervista a questo professore Dallari che confesso non conoscevo.
    Finalmente qualcuno che parla di noi in senso lato che ci occupiamo d'arte!Bisognerebbe intervenire politicamente sollevando un gran polverone affinchè certe professioni vengano riconosciute e non lasciate allo sfruttamento e ai tornaconti di coloro che ci guadagnano.
    Di questi tempi è assolutamente doveroso rendere noto a chi di dovere che esiste un sottobosco e che nel primo articolo della Costituzione,tanto ineggiata quando fa comodo,si parla del LAVORO come un diritto del cittadino e non un optional come i nostri politici pensano che sia!!!

    Grazie uniamo le forze!
    Alessandra

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