Tuttavia, l’abuso di questo concetto nel corso degli ultimi venti anni ha spinto Casey Reas a definire il suo lavoro come Interactive Kinetic Sculpture – scultura interattiva cinetica. Un progetto artistico sviluppato dopo un’esperienza nel campo dell’interface design e del design in senso stretto, successivamente sviluppatosi nell’interesse per sistemi dinamici e capaci di reagire all’informazione generando e alterando composizioni visuali. Fra il 1999 e il 2001, Reas inizia a collaborare con l’Aestethics and Computation Group del Media Lab del M.I.T., Boston. Il Media Lab, aperto a ricerche nel campo informatico, del design e della fisica ha fornito il contesto per una ricerca che, dall’ambito del design puro si è spostato sul versante dell’interaction design e, più in generale, sul fronte dell’interazione uomo-macchina.
“Il mio interesse è nato dalla mia frustrazione come utente. Un’interfaccia statica, basata su di un sistema di icone immobili aveva significato all’inizio, quando la macchina non era in grado di processare velocemente informazioni complesse e l’uomo, a sua volta, non aveva le conoscenze necessarie per seguirla.”
La risposta di Reas alle limitate capacità interattive dei sistemi informatici ancora adesso in uso è un lavoro incentrato principalmente su sistemi e sculture che sappiano reagire e rispondere agli input esterni.
“È vero che l’attenzione di molta scultura interattiva sembra concentrarsi sulla comunicazione, ma credo che l’aspetto principale non stia tanto nell’informazione che si scambia quanto piuttosto nei modi in cui si reagisce all’informazione e la si interpreta. Nelle esperienze di
A questo percorso si è aggiunta un’attenta riflessione su dinamicità e movimento nella storia dell’arte del Novecento – una rivisitazione che include i mobile di Alexander Calder, ma anche meno ovvie riletture in chiave non esclusivamente readymade dell’opera di Duchamp, dal Nu descendant un escalier (1912) a Roue de bicyclette (1913). Un punto di riferimento fondamentale rimane Jean Tinguely: “
“Sento una relazione molto forte con il Tinguely che afferma ‘per me la macchina è innanzi tutto uno strumento che mi permette di essere poetico. Se si rispetta la macchina, se le si permette di coinvolgerci in un gioco, allora forse si può creare una macchina davvero gioiosa – e per gioiosa intendo libera’. Costruire macchine interattive, macchine che comunicano, è per me l’unico modo per esprimere e commentare il mondo in cui mi muovo. Ci sono due realtà: il mondo così come è e il mondo così come viene percepito. Costruire macchine mi permette di dire la mia sulla distanza che li separa.”
Immaterialità e comunicazione, dunque, ma sempre nello spazio fisico.
“Al di là dello straordinario potenziale dell’arte in Rete e dei molti esempi interessanti, direi che i motivi principali alla base di questi lavori vadano dall’idea di contributo continuo alla riflessione su strutture comunitarie, alla valutazione della sorveglianza e dei meccanismi di propaganda. In realtà mi attrae di più l’interazione uno-a-uno e profonda fra i miei progetti e gli individui. Sono più psicologico che sociologico e di conseguenza, sento che la Rete non è il mezzo espressivo adatto al mio lavoro. Ciò che mi interessa è coinvolgere
Un discorso diverso vale per le recenti sperimentazioni legate a palm top e telefoni cellulari di cui, fra l’edizione di Ars Electronica 2001 e What Do You Want To Do With It ? A Digital Festival dell’ICA di Londra si comincia a parlare.
“Solitamente si basano su di un’interazione molto complessa a livello di sistema (macchina a macchina), ma l’interazione umana o percettiva è piuttosto scarsa perché questi dispositivi non ci chiamano in causa profondamente, coinvolgendo una vasta gamma sensoriale”.
Ci si potrebbe chiedere se esista individuare un punto di contatto fra la pratica della scultura interattiva e la net art rispetto alla crescente esigenza di tradurre opere realizzate in Rete o, in generale, progetti immateriali basati sulla tecnologia in uno spazio fisico. Reas risponde:
“Ogni progetto artistico ha una dimensione fisica. Per quanto riguarda le opere pensate per la Rete, penso che la forma fisica sia semplicemente ignorata e impoverita, quasi rinchiusa in scatole grigie con sistemi di input privi di interesse. Il compromesso si gioca fra la nozione di ubiquità e la possibilità di controllo, ed entrambe occupano il loro spazio, la loro dimensione. Internet è affascinante da un punto di vista concettuale, ma debole a livello sensoriale. Sono davvero pochi gli artisti che usano la Rete come unico medium espressivo. Generalmente viene utilizzato come mezzo per la pubblicazione e la distribuzione. Dare fisicità a un progetto implica sempre anche una privazione in termini di purezza formale e, insieme, una variazione estetica perché lo spazio può rendere l’opera più o meno bella a seconda della prospettiva”.
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