A partire dal 21 ottobre, Netflix ha aggiunto al proprio catalogo Cowboy Bebop, un anime che rappresenta una vera e propria pietra miliare per l’animazione giapponese, in vista della futura messa in onda dell’omonima serie live-action a essa dedicata, disponibile dal 19 novembre sulla piattaforma di streaming. Ma cosa è Cowboy Bebop e perché riviste specializzate come Animage, per esempio, l’hanno inserito nella lista dei 100 migliori anime di tutti i tempi?
L’ambientazione in cui si svolgono le vicende dei quattro personaggi principali (cinque se contiamo l’intelligentissimo corgi) è il nostro sistema solare, nel 2071. La Terra è stata devastata 50 anni prima da una pioggia di meteoriti dovuta all’esplosione di un Gate, un dispositivo per viaggi interstellari, nei pressi della Luna. Gran parte dell’umanità ha allora deciso di colonizzare i pianeti limitrofi, in particolar modo Marte, ma i cartelli della criminalità organizzata rendono la vita tutt’altro che semplice a cittadini e forze dell’ordine, soprattutto dopo l’apertura del nuovo gate. Viene deciso allora di istituire un sistema di taglie a mo’ di far west per aiutare l’Inter Solar System Police, grazie a dei cacciatori freelance. Ed è qui che entrano in gioco i nostri eroi, Spike, Jet, Faye ed Ed.
Nulla di inaudito o particolarmente originale per un anime giapponese, dunque, ma allora perché critica e pubblico ne tessono le lodi dalla sua prima pubblicazione nel 1998? Gli appartenenti alla generazione cresciuta negli anni ‘90 possono cercare di dare una risposta a questa domanda concentrandosi sulla nostalgia che permea il ricordo di quelle sere di fine millennio quando, muniti di snack, entusiasmo e bibite zuccherate in egual misura, aspettavano che scoccassero le 21, per sintonizzarsi su MTV e vedere quel cartone troppo maturo per gli undicenni.
Troppo maturo sì, ma non di certo per turpiloquio, praticamente assente, o per violenza, presente, vero, ma dalle tinte pulp e certamente tutt’altro che efferata. Allora, perché simulavamo quei colpi di tosse per cercare goffamente di coprire i dialoghi quando un genitore passava davanti alla tv? Perché ci sembrava di guardare qualcosa che non avremmo dovuto vedere o, almeno, non ancora? Perché Cowboy Bebop non era un anime convenzionale, non era rivolto al tradizionale pubblico giovanile, era qualcosa di adulto, ironico e complesso ed espresso tramite una magnifica estetica cyberpunk dalle tinte noir.
La delicatezza degli argomenti trattati poi, come droga e terrorismo, ma anche quelli più sofisticati, come solitudine, cinismo individualista, condizione umana, sancivano definitivamente che ciò che avevamo davanti agli occhi era molto diverso da quello che abitualmente definivamo “cartone animato”.
Non era roba per undicenni o, comunque, non per quelli del 1999, ed era proprio per questo che ne rimanemmo tutti folgorati. Non ci rimane dunque che riempire queste uggiose serate ottobrine con l’impareggiabile regia di Shin’ichirō Watanabe e con le memorabili colonne sonore di Yōko Kanno in attesa della serie live action, sperando che rispecchi l’altissima qualità alla quale ci hanno abituati.
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