Categorie: Film e serie tv

Spaesati di fronte alla Netflix adaptation di Cowboy Bebop

di - 30 Novembre 2021

Nervosismo nei vecchi fan e spaesamento in quelli nuovi. Queste sensazioni suscita, nei suoi spettatori, il “Cowboy Bebop” di André Nemec, d’altronde, chi ne ha viste un po’ sa che è difficile che una Netflix adaptation possa raggiungere standard elevati (“Dragon Ball” e “Death Note” docent) e quando si parla di un anime che ha gettato le basi della storia dell’animazione giapponese è fuori discussione che il compito sarebbe stato oneroso per chiunque.

Tante, quindi, erano le perplessità riguardo a questo nuovo progetto ma altrettante erano le aspettative e, a giudicare dal più che sufficiente minutaggio in CGI di discreto livello, anche i mezzi a disposizione sembravano considerevoli. Cos’è che non va, allora, nel live-action di “Cowboy Bebop”? Perché, in ultima analisi, lascia a malapena un ricordo, se non addirittura di disappunto, in chi lo guardi?

Infedele al progetto originario come un lanzichenecco? Non è di certo un problema. Rivendicare un certo purismo è tutt’al più sintomo di quel bieco integralismo nostalgico che ci induce ad avere un buon ricordo di indecenze come “Fantaghirò”, “He-Man”, Berlusconi, solo perché percepiti per la prima volta durante momenti spensierati della propria gioventù. Il vero problema è che, in realtà, questo nuova serie è più che altro un mischione poco armonico di chicche tratte dall’anime originale e fillerate maledette, scenografie (solo in interna) di un certo livello e costumi ingessati, finti, patinati fino alla nausea, buone interpretazioni dei tre comprimari e recitazione imbarazzante degli antagonisti.

I dialoghi, poi, sono strappati a forza dall’anime e inseriti in modo tale da rendere i personaggi sfaccettati come un foglio A4. La regia è sì moderna, dinamica, ma senz’anima, rigida interprete degli ultimi dettami estetici Marvel-Disney e l’incolmabile distanza che inevitabilmente si traccia con il lavoro di Shin’ichirō Watanabe, la differenza fra un’opera pionieristica, accurata, affascinante, e la pallida imitazione di questa, impone un giudizio tutt’altro che positivo. John Cho (Spike Spiegel), Mustafa Shakir (Jet Black) e Daniella Pineda (Faye Valentine) fanno del loro meglio con una buona recitazione, ma a fargli da contraltare c’è un Axen Hassel (Vicious) spesso imbarazzante ed una Elena Satine (Julia) abbastanza anonima.

L’improbabile finale di stagione e il breve cammeo di Ed negli ultimi fotogrammi (comprimaria fondamentale nell’opera del ‘98) lasciano presupporre che ci verrà inflitta una seconda stagione. L’augurio allora è che, eccezion fatta per i tre protagonisti, vengano sostituiti con professionisti più adeguati gran parte del cast e del set.

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